Ho sempre pensato che mio padre ci avesse semplicemente abbandonate — ma al suo funerale un’estranea si è avvicinata a me con una chiave… e ho scoperto una verità che non avrei mai immaginato.

Ho passato tutta la vita convinta che mio padre ci avesse semplicemente abbandonate — ma dopo anni ho scoperto la verità che lui per tutta la vita aveva cercato di darmi.

Sono cresciuta sicura di una cosa: mio padre se n’era andato senza voltarsi indietro. Niente telefonate, niente cartoline, nessun weekend trascorso insieme. Era solo una voce con un nome, un’ombra di cui mia madre ripeteva sempre:
— Non chiedere di lui. Ha fatto le sue scelte.

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E io ho smesso di chiedere.

Quando avevo sette anni, trovai una busta con scritto il mio nome, a mano, con una calligrafia tremolante. La portai a mia madre. Lei gliela strappò dalle mani e ordinò:
— Buttala.
— Da parte di chi? — chiesi io.
— Da parte sua, — rispose secca. — Sai bene di chi.

Guardai quella lettera gettata nel cestino, e con lei svanì ogni speranza che lui avesse mai pensato a me.

A dodici anni riprovai. Stavamo piegando i panni insieme, e io chiesi cauta:
— Perché se n’è andato?

— Non ci voleva, — disse lei senza alzare lo sguardo. Tonalità definitiva.

Pieghiai i calzini in silenzio, relegando ancora più in profondità quel quesito sui compleanni mai festeggiati.

Passarono gli anni.

E poi un giorno squillò il telefono, da un numero sconosciuto.
— È lei Elisaveta Karpova? — la voce era sottile, incerta.
— Sì. Chi parla?
— Mi chiamo Larisa. Non so come dirtelo… Tuo padre è morto la scorsa settimana.

Mi mancò il respiro.
— Domani c’è il funerale, — aggiunse.

Il giorno dopo non osavo scendere dall’auto davanti alla cappella. Entrai solo dopo un lungo esitare e mi sedetti all’ultimo banco. Non conoscevo nessuno. Mi sentivo estranea.

Accanto a me si sedette una donna dagli occhi ancora arrossati per le lacrime.
— Lisa? — sussurrò. — Sono Larisa. Sono contenta che tu sia venuta.

Dopo la cerimonia mi condusse in uno studio notarile. Nella sua mano tremava un piccolo chiavistello d’argento.

— Non ha mai smesso di pensare a te, — disse. — Vieni.

Varcammo la porta di un ufficio odoroso di carta e di pelle. Il notaio estrasse una cassaforte nera. Larisa inserì la chiave. Click. Dentro c’era un mucchio di carte.

— Sono documenti giudiziari, — spiegò il notaio. — Dieci anni di istanze per vederti, e decine di lettere rispedite con la dicitura “Destinatario rifiutato”.

Niente accuse. Nessuna minaccia. Solo espressioni di affetto respinte da tua madre.

Larisa mi porse un altro plico. Era scritto con la stessa calligrafia che ricordavo dai sette anni.

Lui chiedeva scusa. Raccontava di aver acceso una candela per ogni tuo compleanno. Di aver creato un fondo per dimostrare il suo amore.

Poi Larisa mi portò in quella che lui chiamava “la stanza della speranza”.

Lì dentro c’era tutto quello che non sapevo avesse conservato: un disegno dell’asilo, foto di scuola incorniciate, un fiocchetto scolorito della cerimonia di fine anno. Mi aveva seguita in ogni piccolo passo — da lontano, ma con amore.

Nelle settimane successive io e Larisa bevevamo spesso il tè insieme. Lei parlava di lui, ridevamo. Conobbi i miei fratellastri — Kai e Lilia. Mi chiamarono subito “sorella maggiore”.
— Lo sapevi che papà vinceva sempre a Monopoli, ma solo quando barava? — scherzava Lilia.

Lui aveva lottato per me. Mi aveva amata. Aveva sperato.

E finalmente io trovai la pace.

Non era più un fantasma.
Era mio padre.
E io la sua figlia.

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