Non ho alcuna intenzione di pagare i vostri debiti – ma la suocera sperava fino all’ultimo di far gravare su di me e su mio figlio i loro prestiti.

Liuba aveva risparmiato per tre anni per il mutuo, mentre suo marito contraeva di nascosto prestiti per assecondare i capricci di sua madre. Un debito da un milione è venuto alla luce per caso: grazie a una chiamata non interrotta, ella ha colto la suocera mentre persuadeva il figlio a prendere un ulteriore prestito e a nasconderlo alla nuora:

«Lascia che la tua insegnante metta da parte più che può – basterà per i tuoi prestiti e rimarrà qualcosa anche per i miei lavori». Il silenzio codardo di lui, pronto a sacrificare la famiglia per soddisfare i capricci materni, e il calcolo cinico di lei sui risparmi altrui si sono tradotti in fredda matematica: conto chiuso, lettere di sollecito accumulate e una richiesta di divorzio.

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Quella sera Danila era tornato dal lavoro in anticipo – chissà come mai, quando si trattava di comprare generi alimentari, trovava sempre scuse, e invece quella volta era magicamente libero. Stava sulla soglia della cucina, stringendo in mano una ricevuta.

– Liuba, dobbiamo parlare – la sua voce tremava come una corda di chitarra stonata. Chissà quante volte aveva provato quella frase mentre tornava a casa?

– Di cosa? – sentii ogni parola trasformarsi in un cristallo di ghiaccio. – Di come mi hai preso in giro per tre anni? O di come voi due avete pianificato di spendere i miei risparmi? Facciamo il bilancio del vostro “piano imprenditoriale” familiare?

Lui sobbalzò come folgorato. Scagliò lo sguardo in giro per la cucina, evidentemente cercando una via di fuga che non esisteva. È curioso come chi per anni mente con maestria, all’improvviso non sappia più mettere insieme due frasi coerenti.

– Io… non volevo… davvero. È stata mia madre… – si aggrappava alle parole come un naufrago alla sua zattera. – È lei che mi ha cresciuto da solo… e aveva bisogno di sistemare casa…

– Un lavoro da un milione? – posai sul tavolo le stampe dei solleciti con la grazia di un croupier che scopre una scala reale. – Tre anni di “lavori”? Davvero? Ci fa un conto di quanti ne hai già saldati in questo lasso di tempo?

Si lasciò cadere sulla sedia come un palloncino sgonfio, con un sommesso «pfff». Guardava quei fogli come se provenissero da un universo parallelo. Forse per lui era davvero una scoperta: quando accumuli i debiti un po’ alla volta, non ti sembrano mai una montagna insormontabile.

– Da dove li hai presi? – sussurrò, come se parlando a voce bassa la realtà potesse diventare meno spietata.

– Dal tuo armadio. Sai, non è molto furbo nascondere le lettere della banca in una scatola di stivali invernali, soprattutto quando tua moglie è ossessionata dall’ordine stagionale – sorrisi, e quel sorriso avrebbe potuto gelare un geyser. – Devo ammettere, però, che è stata una soluzione creativa: chi avrebbe mai pensato che la storia del nostro matrimonio potesse stare tra una suola consumata e vecchi lacci?

Lui tacque, le dita tremanti frugavano tra i documenti. Io lo guardavo, pensando: ecco il mio uomo, quello con cui avrei voluto passare la vita. Ora è lì, in cucina, e non sa neppure più dove posare lo sguardo.

– Ho presentato domanda di divorzio – pronunciai le parole che caddero tra noi come massi in uno stagno. – Domani ti arriverà l’atto in tribunale.

– Cosa?! – balzò in piedi come se il suo sgabello fosse in fiamme, e cadde rumorosamente. – Liuba, no! Parliamone! Troverò i soldi, li restituirò tutti!

– Davvero? – la mia bocca si piegò in un sorriso amaro. – E dove li trovi? Con un altro prestito? O magari tu e tua madre avete già adocchiato la mia “cassetta di sicurezza”? Quella che ho costruito risparmiando per tre anni mentre voi decidevate come saccheggiarla?

Iniziò a muoversi nervosamente per la cucina, come un attore che ha dimenticato il copione. Borbottava di “ritornare in sé” e “rimediare” – il repertorio classico del marito colto con le mani nel sacco. Io restai a osservare quel monologo solitario, sorpresa dalla mia calma: dov’era il dolore? Le lacrime? Il drammatico sfogo della moglie tradita? Dentro di me c’era solo stanchezza, come se avessi appena finito di guardare l’ultimo, prevedibile, episodio di una serie TV.

– Me ne vado – interruppi il suo spettacolo improvvisato. – Porterò via le mie cose nei prossimi giorni, mentre tu lavori. Se ancora vai al lavoro, ovviamente, e non passi il tempo in fila per altri prestiti.

– Non te ne andrai! – mi afferrò per le spalle come se potesse tenere insieme il nostro matrimonio con la forza delle dita. – Risolveremo tutto! Parlerò con le banche, prenderò un altro…

– Un altro prestito? – scrollai le sue mani come polvere da un vecchio cappotto. – No, grazie. I miei risparmi sono già al sicuro.

Se ne andò nella notte, sbattendo la porta come per far tremare i vetri. Rimasi a impacchettare otto anni di vita in due valigie.

Danila rientrò dopo mezzanotte, odorava di birra e di disperazione – probabilmente aveva già ricevuto una telefonata da sua madre.

– Liuba – ripeté, fermandosi sulla soglia della cucina. – Dobbiamo parlare.

– Di cosa? – pulivo meccanicamente un piatto già splendente. – Di come mi hai mentito per tre anni? O di come hai contratto un prestito per il suo “lavoro”, mentre io risparmiavo per il nostro appartamento?

– Non capisci – disse, entrando. – È mia madre, l’unica che mi abbia cresciuto. Le serviva davvero quel lavoro…

– Un lavoro da un milione? – il piatto fece un suono sordo sullo scolapiatti. – E in tre anni non sei riuscito a dirmelo?

Si lasciò scivolare giù fino a sedersi sullo sgabello:

– Credevo di farcela. All’inizio ho preso poco – trentamila, roba da nulla. Pensavo di restituirli in un mese. Poi ne ho presi altri… e ancora…

– Hai provato a dirmelo? – chiesi.

– Avevo paura – guardò in basso, come un gatto colto a fare danni. – Che ti arrabbiassi. Che non capissi. Che te ne andassi…

– E adesso? – mi appoggiai al tavolo, sentendo le mani tremare. – Adesso hai paura?

– Adesso… – sollevò lo sguardo, gli occhi rossi dal sonno o forse dalle lacrime. – Adesso non importa più.

Dopo quel dialogo, mi chiusi in camera da letto e mi sdraiai senza neppure svestirmi. Danila dormì sul divano, lo sentii rigirarsi tutta la notte, sospirando e controllando il telefono. Nessuno dei due chiuse occhio fino all’alba.

La mattina dopo il corriere portò l’atto del tribunale. Danila lo fissò come uno scolaro davanti a un problema di matematica: leggeva e rileggeva alla ricerca di un errore salvifico.

Evgenija Lvovna comparve al portone del nostro appartamento più in fretta di un bonifico per i suoi lavori. Entrò senza bussare, emanando sdegno e profumo economico – il suo cocktail d’occasione.

– Cosa pensi di fare, ragazza mia? – la voce era veleno sotto uno strato di zucchero. – Vuoi davvero abbandonare mio figlio? E la famiglia? L’amore?

Io continuavo a infilare vestiti in valigia, cercando di non farmi distrarre dalle sue lamentele. Ma per lei lo spettacolo era appena iniziato.

– Capisci – s’inumidì gli occhi con un fazzoletto di carta, – a me serviva solo il minimo indispensabile… I tubi perdono, il soffitto sta cedendo…

– Il soffitto? – dissi, estraendo dal guardaroba un maglione. – Cosa c’è di tanto urgente da sistemare nei vostri trenta metri quadri? Forse avete deciso di installare un gabinetto d’oro? O una vasca idromassaggio nel corridoio?

La suocera si strozzò nelle parole preparate, il panico le attraversò il volto in un battito di ciglia.

– Non capisci! – passò all’attacco. – Sei giovane, in forma! Io ho la pressione, la schiena…

– E per ogni sbalzo di pressione serviva un nuovo prestito, vero? – alzai dal pavimento una fattura. – Trecentomila. Volete aprire un secondo Ermitage privato?

– Ma tutti hanno prestiti oggi! – agitò le mani. – Guarda Nina Petrovna al quinto piano…

– Nina Petrovna non manda il figlio in rovina finanziaria – chiusi la valigia con un colpo secco. – E non insegna a mentire alla moglie. E di sicuro non programma di togliere i risparmi altrui.

Evgenija Lvovna rimase immobile.

– Quali risparmi? – balbettò come una ghirlanda fulminata. – Io… volevo solo fare del bene…

– Del bene? – scoppiai a ridere. – Tre anni a spremere tuo figlio come un bancomat: è questo il tuo “bene”? Fargli perdere persino il credito più piccolo? O insegnargli a nascondere le lettere dei recuperi crediti sotto gli stivali?

Lei si alzò con un colpo secco, facendo volare i documenti ovunque.

– Come osi! Io l’ho cresciuto da sola! Ho rinunciato a mangiare, al sonno…

– E ora pensate di ripagarvi quei sacrifici con un mutuo da tre stanze? – brandii una delle estrazioni conto. – Sapete cosa è veramente ridicolo? Mentre voi due pensavate a come intascare i miei risparmi, io vivevo di patate per realizzare il nostro sogno. Davo ripetizioni, facevo i conti di ogni scontrino. – E voi lo sapevate che a Danila avevano già detto di no in tutte le banche. Sapevate dei solleciti. Eppure continuavate a chiedere soldi.

In tribunale fu questione di minuti. Portai la mia cartella con tre anni di frodi bancarie e solleciti. In otto anni di matrimonio non avevamo mai accumulato alcun bene comune. Il giudice scorse i documenti: tutti i prestiti erano intestati a Danila, senza alcuna mia firma – dunque toccava a lui pagare.

Pulito, veloce, senza altri interrogativi. Danila stava in silenzio, testa chinata, mentre sua madre continuava a parlare di nuore ingrata come un bollitore dimenticato sul fornello. Evidentemente sperava che il giudice mi obbligasse a sborsare io.

Un mese dopo, mi trasferii in un piccolo appartamento in affitto dall’altra parte della città. I miei risparmi restavano intatti sul conto dei miei genitori: non riuscivo a spendere quei soldi, erano macchiati di bugie altrui.

Danila finì per tornare a vivere da sua madre. Lo incontrai per caso al supermercato: comprava il pacco più economico di noodles, evitava lo sguardo del cassiere, pagava in monetine estratte dalle tasche, le spalle curve. Sua madre gli stava accanto, sgridando ogni centesimo. Io li osservavo e pensavo: ecco qual è il prezzo dell’amore di una madre. Non in rubli o in mutui, ma in vite spezzate e dignità perduta.

E quella sera a casa mi concessi una cena diversa: mi feci una succulenta bistecca.

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