Avevano nascosto con cura la casa estiva appena acquistata dai parenti. Bisognava sistemare tutto immediatamente. Prendete le pale e iniziate a scavare in giardino. Non verranno più.

Una telefonata ruppe il silenzio mattutino così all’improvviso che Natasha sobbalzò. Sullo schermo apparve il nome: “Zia Lyuba.”

— “Natascenka!” una voce eccitata arrivò dall’altro capo della linea. “Puoi immaginare? Stiamo venendo alla tua casa di campagna!”

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La sua tazza di caffè rimase sospesa a mezz’aria. La zia Lyuba era proprio colei che era “rimasta a dormire” nel loro nuovo appartamento per tre mesi mentre ristrutturava il suo. Tre mesi interminabili, pieni di domande continue come: “Perché non avete questo?” oppure “Perché avete fatto così?” insieme ai suoi commenti preferiti su com’era tutto “ai miei tempi.”

— “Come… venite? E chi… siete?” riuscì a balbettare Natasha.

— “Veniamo con le ragazze! A rilassarci per una settimana,” rispose la zia, e si udirono risate e tintinnii di bottiglie. “Qual è il problema? Siamo famiglia!”

La parola “famiglia” era sempre stata la chiave magica della zia Lyuba, capace di aprire qualsiasi porta. Dopo l’episodio dell’appartamento, Natasha e Vitya avevano deciso di non dire al resto della famiglia nulla della casa di campagna. Ma qualcuno di fidato, a quanto pare, aveva fatto la spia… persino fornendo l’indirizzo.

— “Zia Lyuba, non possiamo…” cercò di obiettare Natasha, tentando di mantenere la calma.

— “Siamo già sul treno!” la interruppe allegramente la zia. “Arriviamo presto!”

Alcuni brevi bip misero fine alla conversazione. Natasha sentì il cuore accelerare. Chiamò suo marito:

— “Vitya, la zia Lyuba e le ragazze stanno arrivando.”

— “Dio mio, di nuovo,” sospirò lui. “Non puoi semplicemente non aprire la porta?”

— “Non se ne andranno,” rispose Natasha nervosamente, giocherellando con l’orlo del grembiule. “Aspetteranno vicino al cancello, facendoci fare una figuraccia con i vicini. Ti ricordi l’episodio dell’appartamento? ‘La nipote adorata ha buttato la zia in strada!’”

Per l’ora di pranzo, la zia Lyuba e le sue compagne – tre cugine di mezza età – avevano già preso possesso della cucina. La veranda, dove quella mattina Natasha aveva gustato la sua solitudine, era ora ingombra di valigie. Il frigorifero era pieno non solo di conserve fatte in casa, ma anche di generi alimentari altrui, e ordinatamente accanto c’erano pacchi di vino.

— “Natasha, dove sono i tuoi asciugamani?” gridò la cugina di mezzo, Lyuda, dal bagno.

— “E porta della carta igienica!” aggiunse la più giovane, Katya.

— “E il tuo shampoo è davvero strano,” criticò la più grande, Vera, annusando il flacone dal profumo di lavanda. “Dammi uno normale!”

Natasha serrò i pugni così forte che le unghie le penetrarono nei palmi. Quello shampoo era esattamente come lo voleva lei – personale, unico, non pensato per un’orda di ospiti. Sembrava fosse arrivato il momento di imparare a dire “no,” anche ai parenti.

— “E vedo che qui vivete proprio bene!” dichiarò la zia Lyuba accomodandosi sulla sedia di vimini che lei e Vitya avevano portato dall’Italia. “Il terreno è spazioso, avete anche la sauna… Perché non ce l’avete detto? Siamo pur sempre famiglia!”

— “Proprio per questo,” disse Natasha con dolcezza, ma nella sua voce si percepiva già un’emozione trattenuta.

— “Cosa-cosa?” fece la zia Lyuba portandosi la mano all’orecchio. “Non ho capito bene!”

— “Proprio per questo!” La voce di Natasha si alzò improvvisamente in un grido. “Perché siete proprio quei parenti che pensano di avere il diritto di presentarsi all’improvviso, occupare tutto lo spazio e usare tutto ciò che ci appartiene!”

— “Natascenka!” La zia Lyuba quasi si alzò, come per difendersi. “Come osi…”

— “Così, esattamente così!” Qualcosa di caldo, a lungo represso, iniziò a salire dentro Natasha. “Ti ricordi cosa successe con l’appartamento? ‘Oh, solo per una settimana!’ – e poi divennero tre mesi! E ogni giorno: critiche, istruzioni su come vivere, cosa cambiare…”

In quel momento, le “ragazze” apparvero sulla soglia – alcune con asciugamani, altre con bicchieri di vino – osservando la scena con sguardo stupito.

— “Comunque, stiamo per partire in vacanza,” Natasha cercò di parlare con calma, sebbene la voce le tremasse. “Abbiamo già comprato i biglietti del treno.”

— “Oh, non ti preoccupare, ce la caveremo da sole!” la zia Lyuba fece un gesto disinvolto, risistemando la sedia. “Vai pure in vacanza!”

— “No,” rispose Natasha, sentendo le ginocchia tremare ma la voce restare ferma. “Non resterete qui. Non ora, non per una settimana. Questa è casa nostra, e vogliamo stare soli.”

La zia Lyuba sembrava non aver sentito – o faceva finta di non capire.

Resistettero per tre giorni. Tre giorni infiniti di ospitalità forzata. Al mattino – voci sconosciute in cucina, al pomeriggio – commenti senza fine: “Perché lo fate così?” o “Altri fanno diversamente…” Alla sera, canti con la chitarra fino a mezzanotte, ignorando completamente i vicini disturbati. Le petunie di Natasha quasi appassirono perché nessuno si ricordava di annaffiarle. I giocattoli di Masha sparirono dalla veranda – “sono d’intralcio al relax.” Persino il gatto decise di trasferirsi dai vicini per sfuggire al continuo baccano.

Ma al quarto mattino…

— “Zia Lyuba,” disse Natasha con fermezza, posando le valigie davanti ai parenti. “Oggi dovete andarvene.”

— “Cosa significa ‘dovete’?” ribatté la zia, ritraendosi dal bicchiere di vino. “Avevamo detto – solo una settimana.”

— “No,” scosse la testa Natasha. “Non abbiamo concordato nulla. Avete deciso voi. È stato così anche con l’appartamento. Ma ora basta. I nostri biglietti sono per domani, e c’è ancora tanto da preparare.”

— “Come osi?!” Vera balzò in piedi, indignata. “Noi…”

— “Siete parenti, lo so,” disse Natasha amaramente con un sorriso triste. “Ma essere parenti non dà diritto d’invadere la vita altrui. Neppure vi siete prese la briga di chiedere se andava bene venire. Siete semplicemente arrivate e…”

— “E che c’è di male?” sbuffò Lyuda. “Una breve visita non è una tragedia!”

— “Breve visita?” Natasha sentì la rabbia ribollire dentro. “Non siete ospiti, avete occupato la nostra casa. Comandate, criticate, cambiate tutto… Sapete quante volte ho pianto in quell’appartamento quando siete rimaste tre mesi?”

La zia Lyuba si immobilizzò, con il bicchiere in mano:

— “Natasha, non volevamo farvi del male…”

Natasha ricordava quel momento come fosse ieri. Il bussare alla porta, la zia Lyuba in lacrime sulla soglia: “Natascenka, sto ristrutturando! Solo una settimana!” Quella settimana si era trasformata in tre lunghi mesi.

All’inizio sembrava quasi divertente. Be’, la zia resterà solo qualche giorno, no? Erano appena entrati nel nuovo appartamento – un bilocale in un quartiere tranquillo, ogni dettaglio scelto con amore. Tutto al suo posto, ogni oggetto selezionato con cura.

E poi…

— “Natasha, perché quelle tende sono così scure?!” diceva la zia mentre riordinava metodicamente le tazze nella credenza secondo il suo gusto. “Guarda da Vera: che belle! Con balze, con fiori…”

— “Non sono scure, zia Lyuba, è stile scandinavo,” cercava di spiegare Natasha.

— “Scandinavo?” la zia sbuffava. “Io lo chiamerei stile cimitero! E poi, chi sistema i piatti così? Lascia fare a me, che li metto come si deve…”

Giorno dopo giorno, il loro spazio accogliente si trasformava in qualcos’altro – più simile a un dormitorio che a una casa. In cucina comparivano tovaglioli vivaci con roselline – “altrimenti sembra una corsia d’ospedale!” In bagno, decine di boccette – “le ragazze vengono spesso!” E nell’ingresso, una fila di cappotti e scarpe altrui – “non posso non accogliere la famiglia!”

Poi arrivarono le “serate tra ragazze”…

— “Natascenka, fai silenzio per favore!” diceva la zia mentre preparava i bicchieri da vino per il “tè”. “Facciamo solo un po’ di chiacchiere!”

Ma il “tè” si prolungava fino a notte fonda. Vitya era costretto a rifugiarsi in camera con le cuffie, cercando di concentrarsi. Natasha invece si barriccava in bagno, piangendo in silenzio.

— “Tesoro, perché ti nascondi?” la zia sbirciava dalla porta. “Vieni a sederti con noi! Guarda, Vera ha portato la sua torta speciale…”

La mattina arrivava inevitabile con nuovi commenti, strane abitudini e opinioni su come la loro casa dovesse essere.

— “Natasha, perché il frigorifero è così vuoto?” si lamentava la zia. “Ai miei tempi…”

La frase “ai miei tempi” suonava come una sentenza. Ai suoi tempi, le donne cucinavano ogni giorno, accoglievano ospiti, seguivano regole precise. Ogni mattina, Natasha si svegliava con un pensiero: “Oggi finalmente dirò che devono liberare l’appartamento.” Ma giorno dopo giorno, le parole restavano strozzate.

— “Resisti,” sussurrava Vitya di notte, stringendola. “È solo temporaneo…”

Quel “temporaneo” durò tre lunghi mesi. Tre mesi di profumi estranei in cucina, oggetti non loro nei mobili, un ordine imposto. Tre mesi di paragoni: “ma guarda come fanno gli altri…”, “ai miei tempi era diverso…”, “e come fa Vera…”

E quando la zia finalmente iniziò a fare le valigie…

— “Tesoro, come farò senza di te?” disse stringendo l’ultima borsa. “Magari resto ancora un pochino?”

— “Zia Lyuba…” cercò di parlare Natasha con dolcezza e fermezza. “La ristrutturazione è finita, vero?”

— “È davvero una questione di lavori? Siamo parenti! Siamo legati!”

Poi, per due intere settimane, restaurarono l’appartamento. Rimisero tutto al proprio posto. Si liberarono dei “tovagliolini accoglienti” con i fiorellini rosa. A poco a poco, si ripresero la casa. E fecero una promessa: mai più! Nessun visitatore inatteso, nessun “passavo di qui per una settimana,” nessun parente senza preavviso.

Ma eccola di nuovo – con valigie, con amiche, e con lo stesso “siamo famiglia” pronto all’uso…

Nel silenzio che seguì, si udiva distintamente il ticchettio dell’orologio sulla veranda, il ronzio delle api sui fiori, e il lontano rumore di un treno in corsa…

— “Va bene,” disse la zia Lyuba con un tono inaspettatamente calmo. “Hai ragione. Abbiamo… davvero esagerato con la nostra permanenza. Ragazze, preparatevi.”

Un’ora dopo erano partite. Senza troppe parole, senza drammi o porte sbattute. Semplicemente, se ne andarono – come se avessero finalmente capito qualcosa di importante.

Quella sera, mentre Natasha si accomodava sulla veranda con una tazza di tè caldo, pensò: forse era così che andava fatto sin dall’inizio? Dire semplicemente “no”? Senza lunghe spiegazioni o scuse inventate… A volte, la cosa più difficile nella vita non è imparare a dire “no,” ma trovare la forza di dirlo nel momento giusto.

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