**Un sogno premonitore**

Erano tre figli maschi, proprio come in una fiaba, solo che il più piccolo non si chiamava Ivan, ma Nikita.

— Eppure bisognava chiamarlo lo stesso Ivanushka, — scherzava la mamma.

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I figli maggiori fin da piccoli dimostravano capacità e talenti fuori dal comune.
Il primo, Sergej, stava terminando la specializzazione e prometteva di diventare un chirurgo brillante.

Il secondo, Slava, studiava al conservatorio ed era vincitore di molti concorsi internazionali: un trombonista di grande talento.

Il più giovane, invece, Nikita non spiccava in modo particolare. Studiava svogliatamente e, nel tempo libero, gironzolava per le strade o leggeva libri.

— Beh, almeno non sparisce nei videogiochi, già questo è una fortuna, — diceva la madre, soprattutto dopo le riunioni a scuola, quando tornava a casa avendo ascoltato le lamentele degli altri genitori.

E verso la fine dell’undicesimo anno Nikita dichiarò all’improvviso: “Farò l’archeologo.”
Beh, archeologo sia.

Oltre ai tre figli, in famiglia c’era una gatta: Zlyuka. E quel nome non era certo casuale. Era arrivata in casa grazie alla mamma: una volta, tornando dal lavoro sotto un acquazzone, vide alla fermata un minuscolo gattino tigrato dentro una scatola di cartone fradicia d’acqua, che miagolava lamentandosi, rintanato in un angolo. A dire il vero, lei i gatti non li sopportava e non ne avrebbe mai voluto uno, anche se i figli chiedevano regolarmente un animale domestico. Ma il suo cuore non era di pietra: decise di salvarlo, sperando poi di riuscire ad affidarlo a qualcuno.

I ragazzi furono entusiasti! Già abbastanza grandi, si strinsero intorno al gattino da tre lati, cercando a gara di accarezzarlo, inventando nomi e cercando di indovinare se fosse maschio o femmina. Il gattino, non avendo neppure fatto in tempo ad asciugarsi bene e a guardarsi intorno, afferrò con un morsetto il dito di Slava, che aveva provato a grattargli l’orecchio.

— La mia mano! — gridò lui. — Domani devo esibirmi!

— Che peste, — sbottò la mamma, lo prese per la collottola e lo portò in cucina davanti a una ciotola di latte tiepido.

Quelle parole furono profetiche. La gattina — perché si scoprì che era una femmina — aveva un carattere incredibilmente intrattabile. Non solo non era per niente riconoscente verso le persone che l’avevano accolta e forse persino salvata da morte certa, ma respingeva completamente qualsiasi tentativo di accarezzarla, giocare con lei o prenderla in braccio: soffiava e graffiava all’istante. Proprio per questo non solo la chiamarono Zlyuka, ma nessuno accettò mai di prenderla con sé: un animale che in foto sembrava dolcissimo, ma che nella vita reale era selvatico e caparbio. La mamma sospirò e la tenne: non poteva mica ributtarla in strada.

Quell’estate Nikita andò per la prima volta a degli scavi veri. Li aspettava così tanto che metteva perfino delle crocette sul calendario appeso al muro. La mamma, invece, era in ansia: era la prima volta che lasciava partire il figlio più giovane da solo per così tanto tempo. E poi, in generale, quell’estate tutti i figli sarebbero stati via. Sergej con la fidanzata Dasha aveva comprato un viaggio in Turchia. Slava andò in un sanatorio a rimettersi: l’ultimo anno era stato duro per lui, non lo prendevano mai nell’organico principale dell’orchestra e lui doveva cedere il posto sia ai musicisti più esperti sia ai nuovi giovani talenti.

Agli scavi era perfino più interessante di quanto Nikita avesse immaginato. Gli piaceva tutto, nonostante il caldo tremendo e il lavoro fisico pesante. E poi dormiva così bene, come mai in vita sua.

Ma una notte, senza riuscire ad addormentarsi, Nikita spalancò gli occhi e non li richiuse più fino al mattino. Fece un sogno stranissimo: sognò la gatta Zlyuka. Nel sogno miagolava disperatamente e chiedeva di essere presa in braccio da Nikita, cosa che non era mai successa. Lui cercava di avvicinarsi, di calmarla, ma lei continuava a sfuggirgli, come se stesse cadendo in un vortice che si avvitava. E fin qui, pazienza. Ma c’era un dettaglio ancora più inquietante: alle orecchie della gatta brillavano i piccoli orecchini della mamma — due non-ti-scordar-di-me azzurri con una pietrina minuscola al centro. Il cuore gli martellava nel petto, e non sapeva nemmeno perché.

Appena fece giorno, chiamò la mamma. Nessuno rispose. Allora chiamò il padre: rispose dopo alcuni squilli. Si scoprì che il papà era andato a pescare con gli amici in un’altra città, ma assicurò che la mamma stava bene — solo il giorno prima ci aveva parlato al telefono.

— Starà ancora dormendo, — disse, salutandolo.

Nikita voleva chiamare Sergej, ma si ricordò che il fratello era all’estero. Allora chiamò Slava. Dopo averlo ascoltato, Slava gli si scagliò contro con accuse: lui era già sul punto di un esaurimento nervoso, e Nikita lo spaventava pure con i suoi sogni, come un bambino, davvero. E Slava si era appena appena calmato e aveva iniziato a ritrovare un po’ di equilibrio…

Chiusa la chiamata, Nikita rimase a pensare: forse erano davvero sciocchezze, perché mai fare tanto rumore per un sogno stupido? Ma quell’ansia appiccicosa non lo mollava. Così decise di fare un’ultima telefonata, dopo aver provato già una ventina di volte a richiamare la madre senza successo. Chiamò la vicina, zia Ljuba. Con sorpresa, fu l’unica a prendere le sue parole molto sul serio. Promise che sarebbe andata dalla mamma e lo avrebbe richiamato.

La chiamata arrivò mentre Nikita stava lavorando di pala a pieno ritmo. Tra il tempo di sfilarsi i guanti e quello di tirare fuori il telefono dalla tasca interna, gli sembrò passata un’eternità. Sullo schermo c’era un numero sconosciuto. Con dita irrigidite premette il tasto. Era zia Ljuba. La madre non apriva la porta e, spaventata dalla telefonata, la donna chiamò suo figlio: lui passò dal balcone nell’appartamento accanto, notando che finestra e porta-finestra erano spalancate. Trovarono la mamma di Nikita distesa in cucina, priva di sensi. Chiamarono l’ambulanza; i medici non dissero molto, ma non era in rianimazione, quindi non doveva essere così grave.

Nikita si sentì come un bambino piccolo che, all’improvviso, si ritrova solo solo su un pianeta lontano e sconosciuto. La paura per la mamma gli strinse il cuore come un cerchio di ferro. Avrebbe voluto correre a casa subito, ma come? Andò dal responsabile del tirocinio: quello promise di fare il possibile e, dopo tre giorni, lo rimandò a casa.

Il padre arrivò prima: prese il primo volo e andò subito in ospedale. I medici lo rassicurarono: la moglie aveva avuto un microinfarto, era caduta e aveva battuto la testa, ma per fortuna non c’erano conseguenze gravi. Certo, avrebbe dovuto restare in reparto e curarsi, ma in generale la prognosi era favorevole. Quando arrivò Nikita, la madre appariva piuttosto in forma e chiamava il figlio più giovane “il mio salvatore”. Nikita si imbarazzava e diceva che non era stato lui: era stata Zlyuka, che l’aveva chiamato nel sogno.

— Tra l’altro, Zlyuka… non si dà pace: gira per casa e urla, — rise il padre. — Anche lei, a quanto pare, ha “perso” la mamma.

Quando Nikita tornò a casa, trovò la gatta, se la strinse tra le braccia e le baciò forte il naso umido e rosa.

— Che brava che sei, Zlyuchka, — disse.

Per una volta lei non lo colpì con la zampa come faceva di solito, ma si divincolò dalle sue mani e cominciò a lavarsi in modo ostentato. Poi si sdraiò sulle pantofole di casa della mamma e si mise ad aspettare che la padrona tornasse dall’ospedale.

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