Artem, mio marito, mi aveva avvisato in anticipo, quasi un mese prima, del prossimo anniversario del suo collega più rispettato. La festa era prevista per sabato, in una lussuosa sala banchetti dell’“Eden”, il ristorante più sfarzoso della città. Per il mondo dell’alta finanza e dei brindisi con champagne era un evento di routine, per me — un motivo di silenzioso panico.
— Santo cielo, oggi è già giovedì! — mi sfuggì in un sussurro pieno di disperazione, mentre fissavo ancora una volta il mio guardaroba. — E non ho nemmeno iniziato a cercare un vestito!
Dopo la nascita del nostro Stepan il mio corpo era cambiato in modo impercettibile, ma irreversibile. I vestiti preferiti, che un tempo mi stavano alla perfezione, ora tacevano civettuoli alla domanda “si chiude la zip?” o mostravano sfacciatamente una taglia inadatta. Non era solo un armadio — era un museo della mia vita passata e spensierata, che ora guardavo con una lieve tristezza.
Come sempre, il porto salvifico fu la mamma. La chiamai, e dopo appena quindici minuti era alla porta, tutta leggermente sudata per la camminata veloce. Abitavamo nello stesso stabile, solo in ingressi diversi, e questa vicinanza era la nostra gioia comune.
— Vai, figlia, vai a cercare la tua felicità, — sorrise, prendendo dalle mie mani il sonnolento Stepa. — Noi due, nonna e nipotino, ci divertiremo benissimo.
E io mi misi in cerca. Non di un vestito. Di me stessa.
Il centro commerciale mi accolse con l’eco vuoto di passi altrui e una musica invadente e allegra. Scegliere un abito, per me, era sempre stato simile a un gioco di sopravvivenza. Ogni prova — un dialogo interiore pieno di dubbi e autocritica: “Questo colore mi invecchia?”, “La linea ingrassa?”, “Sembro una che ci prova troppo?”. Il mio Artem, che una volta aveva accettato di accompagnarmi a scegliere un giubbotto invernale, tornò a casa con lo sguardo spento e fece un giuramento ufficiale — “Mai più. Mi senti? Mai più!”. Gli erano bastate tre ore di maratona.
La terza boutique mi parve accogliente e promettente. L’aria sapeva di profumo caro e di seta. Mi venne incontro una commessa graziosa, con un sorriso perfetto e uno sguardo così incredibilmente gentile che per un attimo mi sentii più leggera.
— Sua sorella sta già provando la collezione in quel camerino, a sinistra, — annuì verso il fondo della sala. — Ha provato, credo, tutto quello che abbiamo, ma niente le è piaciuto. Forse può aiutarla a decidere?
Il mondo si fermò. Nelle orecchie risuonò un silenzio assoluto, che copriva persino la musica.
— Scusi? Quale sorella? — la mia voce suonò sorda e innaturale. — Io non ho sorelle.
La commessa esitò, il suo sorriso perfetto tremò. Guardava ora me, ora la porta del camerino, che proprio in quel momento si aprì con un leggero cigolio. Mi voltai, obbedendo a un impulso interiore, venuto dal profondo degli istinti.
E rimasi di sasso.
Dalla porta uscì… Io. Non in senso metaforico. Non “una donna somigliante”. Ero io. Lo stesso taglio degli occhi grigi, leggermente a mandorla. La stessa piccola voglia vicino al sopracciglio sinistro. Le stesse fossette sulle guance quando accennava un sorriso. Le stesse labbra. Stavamo lì a guardarci, due quadri dipinti con lo stesso pennello. Due gocce d’acqua, due granelli dalla stessa conchiglia. Le stesse onde sciolte di capelli castani, le stesse figure, e persino eravamo vestite come d’accordo — jeans strappati e semplici magliette bianche.
La parola ci abbandonò entrambe. Eravamo due sponde dello stesso fiume, improvvisamente avvicinatesi fino a scontrarsi. La commessa rimase pietrificata, muta dallo stupore, capendo di essere testimone di qualcosa oltre la realtà.
La prima a riprendersi fu lei.
— Tu… chi sei? — la sua voce. Era la mia voce. Stessa timbrica, stesse inflessioni.
— Io sono Veronika, — sussurrai, sentendo le gambe cedere. — E tu?
— Io… Marina. Ma per i miei cari sono Rina.
Fece un passo verso di me, e io istintivamente arretrai. Era troppo.
— Dobbiamo parlare. Andiamo da qualche parte? — propose, e nei suoi occhi lessi lo stesso bisogno primordiale di capire cosa stesse accadendo che sentivo in me.
Uscimmo dalla boutique, lasciandoci alle spalle la commessa sbalordita, e ci dirigemmo verso un piccolo caffè dall’altra parte della strada. Due donne identiche che si muovevano all’unisono, suscitando una scia di sguardi perplessi e intimoriti dei passanti.
Ci sedemmo a un tavolino accanto alla finestra. Il caffè si raffreddava, intatto. Lei mi fissava, assorbendo ogni tratto del mio viso, e io facevo lo stesso. Era inquietante e magnetico.
— Quindi, tu… sei viva, — disse infine Rina, con la voce che le tremava. — Mia madre e mia nonna hanno sempre ritenuto che tu non ce l’avessi fatta. Forse così per loro era più facile. Solo… rassicurare se stesse.
Fece un respiro profondo, raccogliendo pensieri e forze per pronunciare parole che avrebbero rovesciato i nostri due universi.
— Nostra madre biologica ci ha partorite in un piccolo ospedale della cittadina di Taëžnyj, il quattro ottobre 1993. Tu… hai quella data?
Annuii soltanto. Un nodo in gola non mi permetteva di emettere suono. Quattro ottobre. Sì.
— Io sono venuta al mondo per prima, — continuò Rina, torcendo nervosamente un tovagliolino di carta. — Ero più grande, più forte. Tu… tu eri così piccola. Come un uccellino. Il tuo respiro era appena percettibile. Ti portarono nel reparto dei prematuri, dei più deboli. E prima della dimissione… nostra madre firmò la rinuncia ufficiale. Solo a te.
Tacque, guardando nella sua tazza, come se nella nera superficie cercasse i fantasmi del passato.
— Gli anni Novanta. A Taëžnyj era crollato il lespromchoz. Niente lavoro, niente soldi. Nostro padre non c’era mai stato. Lei rimase sola con due neonate in braccio. Una delle quali in bilico… La scelta fu mostruosa. A crescermi fu soprattutto la nonna. La mamma… non ce la fece. Si diede all’alcol. Se n’è andata quando avevo dieci anni.
Ascoltavo, e brividi di ghiaccio mi correvano sulla pelle. Vivevo un’altra vita, la sua.
— Poi… anche la nonna se n’è andata. Sette anni fa. Sono rimasta del tutto sola, — la sua voce scese a un sussurro. — Sopravvivevo come potevo. Lavoretti occasionali, vendevo pirožki alla stazione… Un giorno, d’inverno, dopo essere riuscita a vendere qualcosa, i barboni locali mi “ringraziarono”, mi fecero bere fino a perdere i sensi. Tornavo a casa attraverso il bosco… e non arrivai. Mi addormentai in una neve. Mi trovò un trattorista, che stava sgombrando la neve. Mi salvarono per miracolo.
Piangevamo. In silenzio. Solo guardandoci e piangendo sui destini spezzati, sul dolore che portavamo dentro da anni, senza nemmeno sospettare che appartenesse non solo a noi.
Poi andammo a casa mia. L’ascensore saliva al mio piano lentamente, dolorosamente. La mamma aprì la porta, il suo volto si illuminò prima del solito, tenero sorriso, che subito si trasformò in shock, smarrimento e un lieve spavento. Guardava le sue due figlie, ferme sulla soglia.
E allora raccontò tutto. La verità intera, che lei e papà avevano custodito per tutti questi anni.
— Veronička, amore mio… Sì, ti abbiamo presa dalla Casa dei bambini. Non potevamo avere figli… Eri un fagottino magro e triste… Ti abbiamo amata dal primo sguardo! — piangeva, abbracciandomi, e sentivo le sue spalle tremare. — Non sapevamo. Giuro, non sapevamo che tu avessi una sorella! Nei documenti non c’era nulla! Pensavamo… pensavamo che non l’avresti mai scoperto. Che non siamo il tuo sangue. Perdonaci!
La abbracciai, la mia mamma, unica e vera, che profumava dei soliti profumi e di casa.
— Mamma, ma cosa dici… Tu sei la più cara! Tu sei la mia mamma. E lo sarai sempre. Non cambia niente. Niente! — e baciavo le sue guance bagnate di lacrime, giurandolo ancora e ancora.
La serata divenne una confessione strana, surreale e infinitamente toccante. Io e Rina parlammo senza sosta. Scoprimmo che entrambe avevamo finito Lettere, solo in città diverse. Lei lavorava come insegnante di letteratura a scuola, aveva sposato un professore di matematica. Non avevano figli. Io, dopo gli studi in giornalismo, avevo quasi subito sposato Artem e partorito Stepa.
Scoprimmo che entrambe detestiamo il coriandolo, adoriamo i vecchi film in bianco e nero e abbiamo la stessa abitudine di toccarci il lobo dell’orecchio quando siamo in ansia. Avevamo la stessa risata — squillante, che veniva dal profondo dell’anima.
— Senti, ma a te… — esitai, temendo di guastare l’ennesima incredibile coincidenza. — Sabato scorso, per caso, non ti faceva male un dente?
Rina spalancò le mani, gli occhi le si arrotondarono per lo stupore.
— Sì! Terribilmente! Non vedevo l’ora che arrivasse il lunedì per correre dal dentista. È venuta fuori una pulpite!
E a me, proprio quel sabato, si mise a fare male all’improvviso un dente assolutamente sano. Andai anch’io dal medico, e lui, perplesso, allargò le braccia: “Nervi. Per lo stress”.
Il piccolo Stepan, svegliandosi, ci guardò dapprima smarrito, ora me, ora Rina. Poi venne da me, mi abbracciò la gamba e, indicando con il ditino mia sorella, disse sicuro: “Seconda mamma”. I bambini sentono la verità con la pelle.
La culminazione della giornata fu il ritorno di Artem. Entrò, stanco dopo il lavoro, gettò le chiavi sul mobile e alzò la testa. Il suo volto attraversò tutta la gamma delle emozioni — stanchezza, smarrimento, shock, incredulità ai propri occhi. Ci guardava in silenzio, e vedevo come il suo mondo razionale, ben costruito, andava in frantumi.
Quando, interrompendoci a vicenda, gli spiegammo la situazione, tacque a lungo, poi si sforzò di dire, tentando di stemperare l’incredibile tensione con una battuta:
— Mio Dio… Solo, mi raccomando, che non vi scambi per sbaglio. Altrimenti porto i fiori a mia moglie e poi non è mia moglie.
La sera la accompagnò alla stazione. Stavamo sul marciapiede, due metà di un tutt’uno che finalmente si erano trovate. Ci abbracciammo fortissimo, come se avessimo paura che fosse un sogno sul punto di svanire.
— Ci vediamo presto? — chiesi, sentendo di nuovo le lacrime salire alla gola.
— Per forza. Nel più breve tempo. Con tutti i nostri mariti, — sorrise, e il suo sorriso era il mio.
Salì sul treno locale, e noi le sventolammo finché le luci del vagone non si dissolsero nel buio. Sapevo — ormai per sempre. L’abisso di solitudine, che non avevo mai compreso ma sempre sentito, era colmato. Colmato dalla voce identica alla mia, dal riso, dal dolore e dalla gioia del mio riflesso.
E una cosa così — sì, una cosa vera, da togliere il fiato — accade nella vita. A volte basta entrare nel terzo camerino di prova per trovare non solo un vestito. Ma se stessi. L’altra. E la vera.