Il Rosso e i piroshki rubat

Quel giorno di novembre era grigio e pungente, come se il destino stesso avesse scelto la scenografia per il primo atto di quel dramma. L’aria nell’atrio della scuola era densa del respiro della folla, che sapeva di cappotti bagnati, moffole e un’eccitazione inquieta. Alisa, stringendo al petto il diario nuovo di zecca che odorava ancora di tipografia, si fermò sulla soglia, stordita dal cupo ronzio delle voci. Era il suo primo giorno nella nuova scuola e, invece di un tranquillo incontro con l’orario, si ritrovò nel centro della tempesta.

Al centro del cerchio di persone, come alla gogna, stavano due ragazzi. E sopra di loro, come una nuvola di temporale, si ergeva la figura della vicepreside, Klaudia Viktorovna. La sua voce, metallica e spietata, tagliava l’aria come una sciabola.

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— Un tale scempio non l’ho visto in tutti i miei trent’anni di pratica pedagogica! — tuonava, e il suo sguardo, pesante e accusatore, scivolava come un lento fascio di proiettore sui volti degli spettatori. — Intrufolarsi in cucina dall’ingresso di servizio! Rubare i beni della mensa scolastica! Che c’è, avete deciso di finire in galera, futuri recidivi? La vostra strada porta dritta al riformatorio e poi sul fondo della società, nel fango e nella miseria!

Ad Alisa, contratta per il disgusto di quel linciaggio, venne voglia di vedere coloro su cui si riversava tutta quella collera. Si fece strada come un piccolo luccio attraverso la barriera di schiene e si fermò.

Due ragazzini. Uno — mingherlino, con il volto pallido e spaventato, in una giacca logora e visibilmente troppo piccola. Piangeva in silenzio, con un dolore adulto, e grosse lacrime gli scendevano sulle guance lasciando strisce lucide sulla pelle arrossata dalla vergogna. Il secondo… Il secondo era il suo opposto.

Stava lì, fissando ostinatamente il pavimento, stringendo in una mano la prova del reato: un pirozhok. Ne era rimasto ben poco: l’impasto era stato schiacciato in un grumo compatto, e il ripieno di patate, simile all’argilla, era colato tra le dita e si era rappreso sulla mano in una crosta grumosa. Sotto la sua mano tesa con rigida tensione, sul linoleum sporco giacevano briciole miserabili. Ma non fu questo ad attirare l’attenzione di Alisa. Il suo viso. Rameo, lentigginoso, con le labbra serrate con ostinazione e uno sguardo fermo, non spezzato, perso nel nulla. Un piccolo vichingo, pronto a morire ma non a chiedere pietà. E quell’immagine, quella lega di sfrontatezza e condanna, colpì Alisa dritta al cuore come una scarica elettrica. Il mondo si ristretto a lui soltanto. Così, al primo sguardo, al primo colpo del cuore contro le costole, la raggiunse il suo primo amore: totalizzante, struggente.

— I genitori — a scuola! Domani stesso! È chiaro? — continuava a riversare la sua collera Klaudia Viktorovna.

La folla, sazia dello spettacolo, cominciò a diradarsi. Alisa, frastornata, si affrettò via per riuscire a trovare prima della campanella l’aula dell’insegnante responsabile di classe.

Zoja Michajlovna, una donna gentile con rughette radiosamente sorridenti agli occhi, la stava già aspettando. Accompagnò Alisa alla lezione di biologia e, dandole una leggera spinta avanti, la presentò alla classe.

— Quinta «V», un minuto di attenzione! Ragazzi, abbiamo un nuovo arrivo: Alisa Sokolova.
Un trillo acuto e penetrante fece sobbalzare Alisa. Da ogni parte decine di occhi curiosi erano puntati su di lei.
— Le aule le conoscete già, è novembre, quindi, ragazze, vi prego: fate da tutor alla nuova, aiutatela ad ambientarsi. Va bene?
— Sì, Zoja Michajlovna! — ruggì in coro la classe.
— Bravi. Alisa, vai, siediti al terzo banco vicino alla finestra, accanto a Lëva Ognev. Più avanti non ci sono posti liberi, e tua madre ha chiesto di non metterti in fondo. Ognev! — la voce dell’insegnante si fece severa. — Mi raccomando! Niente scherzi. Non mettere in imbarazzo la nuova, intesi? Con le tue bravate ci ho già avuto a che fare.

— Già, — arrivò svogliata la risposta proprio da quel posto.

Alisa alzò lo sguardo. Il sangue le montò alle tempie, le batteva nelle orecchie, il mondo ondeggiò. Era LUI. Proprio quel vichingo rosso, il ladro di pirozhki. Lëva Ognev. Ora sedeva a mezzo metro da lei, e lei poteva distinguere ogni lentiggine sul suo naso, ogni ricciolo furioso dei suoi capelli di rame. Notandola, lui si spostò di proposito fino al bordo del banco, fissando fuori dalla finestra.

Per tutto quel giorno infinito non si dissero una parola. Lëva si dimenava come una trottola: faceva smorfie ai vicini, punzecchiava con la penna la schiena di quello davanti, si lanciava palline di carta. Era un uragano che spazzava via tutto sul suo cammino. Ma nelle sue birichinate non c’era cattiveria, solo un’energia disperata e ribollente. E quando all’intervallo sfrecciava lungo il corridoio e i suoi vortici rossi si levavano sulla testa come una corona di fiamma, ad Alisa sembrava che una sola sua risata, larga e scanzonata, rendesse più luminosi i tetri muri della scuola. Sembrava che non ci fosse posto migliore sulla terra di quello in cui in quel momento si trovava lui.

— Idiota rosso, — sbuffò accanto un’allieva quando Lëva passò come un turbine, quasi travolgendole. — Chissà se tutti i rossi sono così fuori di testa?

Alisa stava in un cerchio di nuove amiche, appoggiate al calorifero bollente, e taceva. Era già gennaio, le feste di Capodanno erano finite, fuori infuriava un vento tagliente.

— Vi ricordate quella storia dei pirozhki? — disse Ira, la più chiacchierona delle nuove amiche. — Ieri l’ho sentita da mia madre… A quanto pare, Lëva quei pirozhki non li ha rubati per sé. Ma per le sorelline di quel taciturno, Slava. Il padre beve, la famiglia è povera, i bambini vanno in giro affamati. È stato Lëva a convincerlo, a spingerlo all’“impresa”. La mamma di Lëva è amica di mia madre, così l’ho saputo in gran segreto… A casa, comunque, gliel’hanno fatta pagare per bene.

— E giustamente! Gente così va educata a colpi di cinghia. Cos’altro sai di lui?
— Be’… In sostanza è buono fino all’indecenza. Sua madre brontola sempre perché porta in casa animali feriti — ora un gattino trovato, ora un giovane corvo con l’ala rotta. Poi distribuisce questa felicità zoologica a parenti e vicini. E a Capodanno ha messo da parte i soldi dei pranzi scolastici e ha comprato una torta enorme all’anziana vicina sola. Quella quasi piangeva dalla felicità. In primavera le zappa pure le aiuole.

— Fuori di testa, — concluse senza appello un’altra compagna, una ragazza severa con trecce perfettamente lisce. — Non è in grado di usare la testa.

Ben presto Alisa e Lëva furono separati di banco. Cominciò un gioco strano, doloroso e dolce. A lezione lei lo osservava di sottecchi, carpendo ogni gesto, ogni sorriso, ogni nuova lentiggine comparsa sul naso con l’arrivo della primavera. Lui faceva finta di non accorgersi di quello sguardo insistente. Poi, a volte, si fermava anche lui, fissandola con il suo sguardo limpido e pulito, in cui si leggeva un’anima buona e semplice. In quei momenti Alisa si applicava diligentemente sul quaderno, sentendo sulla guancia il calore del suo sguardo, come un raggio di sole. Se ne scaldava, come una lucertola su una pietra rovente. Mezza lezione lei lo guardava, mezza lezione lui guardava lei. E la notte piangeva piano nel cuscino, colma di una nostalgia incomprensibile e di tenerezza; e al mattino di nuovo indossava la maschera dell’indifferenza.

Così scorrevano i giorni, le settimane, i mesi, finché a casa loro non installarono finalmente il telefono. Ad Alisa e Ira comparve un nuovo divertimento — gli scherzi telefonici. Sfruttando il turno di sorveglianza, si intrufolarono nella sala insegnanti e rubarono per un po’ il registro, ricopiando con cura tutti i numeri dei compagni.

— Pronto, buongiorno! — iniziava Ira con una voce monotona e burocratica, mentre Alisa soffocava dalle risate, conficcandole le dita nella spalla. — La chiama il commissariato di polizia. Avrei bisogno del padre di Vasiliev Konstantin.
— Papà non c’è… È di turno… È successo qualcosa? — dalla cornetta arrivava una voce giovane e spaventata.
— Riferitegli che è stato aperto un procedimento penale a carico di suo figlio.
— Cooosa?!
— Oggi alle otto del mattino, uscendo dal portone, ha deliberatamente schiacciato un lombrico. La madre della vittima ha sporto denuncia. Chiede un risarcimento di un milione di dollari. È necessario che voi…
— Bazyikina, sei tu! Ti ho riconosciuta! — all’improvviso urlava nella cornetta una voce offesa.
— No, sono l’agente di quartiere! Vi aspetto in commissariato! — strillava acuta Ira e, riattaccando, cadeva a terra contorcendosi da una risata muta.

Poi trovarono un tema più sicuro — l’amore.
— Pronto, posso parlare con Sergiolino? — chiedevano languide e zuccherose.
— Sono io… — si stupiva il ragazzo, arrossendo già in anticipo.
— Perché non mi chiami, tesoro? Ti aspetto…
— Chi parla?
— Hai già dimenticato? Tsk tsk… La settimana scorsa, alla diga… Mi hai dichiarato il tuo amore in modo così bello…
— Forse avete confuso mio padre? Anche lui si chiama Sergej…
— No, tu, il ragazzo con la giacca blu, con il neo sopra il labbro…
— Ehmmm…
— Come hai potuto scordare il nostro bacio! Mostro insensibile! È finita! Non chiamarmi mai più!

A quel punto, soffocando dalle risate, riattaccavano. Osservare il giorno dopo le vittime confuse e imbarazzate era incredibilmente divertente.

E arrivò il turno di Lëva Ognev. Ira porse ad Alisa la cornetta, pesante come fosse di ghisa.
— Chiama tu.
— No, dai, chiama tu!
— Tocca a te, io ne ho già chiamati dieci!
Alisa tentennava, si nascondeva in bagno, fingeva di dover studiare urgentemente, ma alla fine cedette. Le dita tremavano, le cifre sul disco le si confondevano davanti agli occhi. A fatica compose il numero. Il cuore le batteva in gola.
— Pronto? — nella cornetta risuonò la sua voce. Così familiare, così cara e così spaventosa.
— Ciao, — sussurrò, e per la paura riattaccò di colpo, come se la cornetta fosse rovente.
— Ma che fai? — si stupì Ira.
— Non ce la faccio… Non riesco nemmeno così, per scherzo, a parlargli, — confessò Alisa, sentendo le guance in fiamme.
L’amica le diede una pacca sulla spalla con compassione.
— Che, lo odi così tanto, eh?
— Già… — abbassò ancora di più la testa Alisa.

Quella stessa sera, spaparanzata sul divano davanti alla TV, Alisa non poteva immaginare cosa sarebbe successo dopo. Squillò il telefono. Sua madre alzò la cornetta.
— Una ragazza? Da questo numero? Strano… Alisa, credo sia per te.
Alisa, senza aspettarsi tranelli, pensava fosse Ira.
— Pronto?
— Ciao. Sei tu che mi hai chiamato oggi?

Le si piegarono le gambe. Il cuore prese a martellare con una furia tale che la stoffa della maglietta di casa vibrò. Si sedette lentamente sul pouf nel corridoio. La madre alzò interrogativa un sopracciglio: «Chi è?». Alisa con lo sguardo la pregò di lasciarli soli. La madre le sorrise con il suo sorriso saggio e comprensivo e uscì.

— Come hai… — cominciò Alisa.
— Abbiamo l’identificatore di chiamata, — spiegò semplicemente Lëva.
Alisa si rimproverò mentalmente. Che ingenuità!
— Già… Allora, come va?
— Faccio i compiti. Sono appena tornato dall’allenamento. Liska, eri davvero tu?
A quel nomignolo inatteso e caldo le mancò il respiro.
— Ehm… Sì.
— L’ho immaginato. Ho riconosciuto la voce. Che stai facendo?
— Guardo la TV…
— E com’è? Di cosa parla?
— Così… Di amore, di amicizia…

Senza accorgersene, parlarono per quasi un’ora. Quanto era spassoso! Che storie divertenti raccontava dell’allenatore, del suo cane, della vecchietta vicina! Scoprirono che entrambi adoravano il gelato alla fragola d’inverno e le albicocche verdognole e asprigne, che entrambi sognavano di andare al mare e girare il mondo.

Da quella sera la vita di Alisa si capovolse. Correva a casa dopo la scuola da sola, liquidando le amiche con i pretesti più vari, e si sedeva al telefono come davanti a un fuoco, scaldandosi nell’attesa della sua chiamata. E lui chiamava. Ogni giorno. Parlavano di tutto: di libri, di musica, di professori sciocchi e lezioni noiose, delle stelle e del futuro. Le conversazioni duravano due, tre ore, finché non tornava la madre di Alisa o Lëva non doveva correre al calcio.

A scuola era più difficile. Bisognava salvare le apparenze di indifferenza. La loro comunicazione si limitava a sguardi eloquenti, sorrisi rapidi e furtivi. Alisa si scioglieva sotto il suo sguardo come gelato al sole. Ma presto anche quel gioco li annoiò. Cominciarono a parlarsi apertamente.

Dopo sei mesi tornarono a sedere allo stesso banco. Lëva la accompagnava fino a casa, benché vivesse dall’altra parte della città. Altri sei mesi dopo, durante le passeggiate serali, le loro dita si intrecciarono per la prima volta — timide, incerte, ma già per sempre. E un anno più tardi, quando avevano entrambi quindici anni, si baciarono. Al parco. Sotto un salice frondoso. Timidamente, goffamente, in modo buffo e terribilmente emozionante. Le sue labbra erano morbide e leggermente screpolate dal vento. Andò così. Lui la accompagnava ogni sera. Lei si alzava in punta di piedi per sfiorargli la guancia, poi quel bacio rapido, veloce, dolcissimo sulle labbra. I suoi occhi, brillanti come due smeraldi. Il vecchio salice all’ingresso del palazzo. Le luci alle finestre, simili a pietre preziose. Lei volava fino al quinto piano senza sentire i gradini sotto i piedi. Era l’amore più puro, più luminoso e più sincero della terra.

Poi litigarono. Per una sciocchezza, per una bagattella, per un malinteso così stupido da non valere un soldo bucato. A scuola c’era una discoteca, e da Lëva c’erano ospiti — il compleanno del padre. La linea del telefono fu occupata tutta la sera, qualcuno aveva dimenticato di riattaccare la cornetta. Alisa non riuscì a chiamarlo, si offese e andò da sola, cedendo alle insistenze delle amiche. Poi seguirono lunghi e penosi chiarimenti, pieni di parole offensive, rimproveri amari e accuse ingiuste. Nessuno voleva cedere, nessuno voleva fare il primo passo. Le loro conversazioni serali cessarono. A scuola tornarono estranei.

— I nostri inseparabili gemelli siamesi si sono litigati! Che dramma! — sibilavano i compagni.

Così volò via mezzo anno. La terza media (nono anno) volgeva al termine. La scuola si preparava al ballo di fine anno. Dopo il nono, quasi tutti se ne andavano; da tutte le parallele si formava a stento una sola decima. Anche Lëva se ne andava — si iscriveva a un istituto in un’altra città.

Ed ecco il ballo. La sala in penombra, luci colorate che lampeggiano, musica che suona. Tutti ballano, ridono, scherzano. Solo loro due — Alisa e Lëva — stanno presso le pareti opposte, senza togliersi gli occhi di dosso. A Alisa si avvicinavano i ragazzi per invitarla a ballare, ma lei scuoteva solo il capo in silenzio. Le amiche cercavano di trascinare Lëva in pista, ma lui le scacciava come mosche fastidiose. Così rimasero fermi tutta la sera, traforandosi con lo sguardo attraverso la folla.

— Signori, gli ultimi due brani! — annunciò la voce del presentatore. — Concludiamo il nostro ballo!

Partì la musica. Lenta, triste, struggente. Di un amore non realizzato. Alisa la riconobbe all’istante. Era la LORO canzone. Suonava dall’altoparlante sfilacciato del chiosco in quel parco, proprio quella sera… Vide che anche Lëva sussultò, riconoscendo la melodia. Scattò di colpo dal posto e, con passi rapidi e decisi, attraversò l’intera sala, fendendo la folla come un rompighiaccio.

— Balliamo? — la sua voce era bassa e roca.

Lei annuì soltanto, incapace di pronunciare una parola.

Ballarono, abbracciati, due canzoni di fila. Lui la teneva strettissima, quasi fino al dolore, e le sue labbra le sfioravano la tempia, i capelli, il collo. E al mondo non esisteva nessuno e niente — né spettatori, né tempo, né offese passate, né la separazione futura. C’erano solo lei e il suo ragazzo rosso, il suo Lëva. Non si accorse di quando finì un brano e ne iniziò un altro. Non si accorse di come tacquero anche gli ultimi accordi. Tutto finì.

Tutti cominciarono ad andarsene. Lui, come una volta, la accompagnò fino al portone. Rimasero in silenzio, tenendosi per mano, e Alisa osservava i brillantini sulle sue scarpe, mentre lui guardava lontano, lontanissimo, attraverso le case, attraverso gli anni, attraverso tutta la sua futura vita senza di lei.

— Allora, vado, — sospirò infine. — Ciao. Abbi cura di te.

Si chinò e le diede un bacio sulle labbra. Così, semplice, infantile, come sempre. Si voltò e se ne andò. La sua sagoma si dissolse nel crepuscolo.

A casa Alisa pianse tutta la notte. E al mattino, dopo aver dormito appena un po’, rimase incollata al telefono, aspettava, credeva che lui avrebbe chiamato… Ma quella chiamata non arrivò mai. Dopo qualche giorno Lëva partì. Poi, due anni dopo, partì anche lei.

Le loro strade non si incrociarono più. Sono passati più di venticinque anni. Alisa ha la sua vita, la sua famiglia, le sue preoccupazioni. Ma da qualche parte, molto in profondità nel cuore, nel suo angolo più segreto, vive il ricordo del ragazzo rosso con le lentiggini e dei pirozhki rubati. Il ricordo del primo amore, il più puro, il più doloroso e il più bello. E a volte, sentendo una melodia casuale di quella lontana giovinezza, si immobilizza, le corrono i brividi sulla pelle e le salgono agli occhi lacrime traditrici. E capisce di non aver mai smesso di amarlo.

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