«Mamma, tanto sei a casa.»

Ho 70 anni e ho deciso di vivere per me: il biglietto che mi ha cambiato la vita

Mi chiamo Galina Petrovna, ho settant’anni e per tutta la vita sono stata “la mamma” e poi “la nonna”. Quella che correva all’asilo, che cucinava, che stava a disposizione, che non diceva mai di no. I miei giorni erano pieni di voci infantili, di richieste, di compiti da svolgere. E io ci mettevo amore, certo. Ma la mia vita? Quella mia, solo mia, dov’era finita?

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Un pomeriggio, mentre tornavo a casa con mio nipotino Sasha, la maestra dell’asilo mi rimproverò di essere in ritardo. Non lo ero affatto, ma ormai ero abituata: sembrava sempre che sbagliassi io, che fossi in difetto. Quando arrivammo a casa, Sasha chiacchierava felice di cartoni e amici. Io, invece, pensavo soltanto che la dispensa era vuota e la pensione ancora lontana.

Poi successe l’impensabile. In cassa, al supermercato, consegnai un vecchio biglietto della lotteria. La cassiera lo passò allo scanner e mi guardò con gli occhi spalancati:
— Nonna, lei ha vinto! Cinquecentomila rubli!

Cinquecentomila. Mezzo milione. In quell’istante, qualcosa dentro di me si spezzò e si ricompose. Non era solo una cifra. Era un biglietto verso la libertà.

Cosa fare con quei soldi? Le figlie avrebbero voluto spenderli per computer, macchine, ristrutturazioni. Io invece ricordavo una promessa lontana: l’Italia. Negli anni dell’università avevo studiato la lingua, sognato Venezia, Firenze, Roma. Poi era arrivato Viktor, mio marito, e con lui la vita “normale”: pannolini, lavori, sacrifici. “L’Italia? Sciocchezze. Vivi come tutti”, mi diceva. Io ci avevo creduto. Eppure quel sogno era rimasto lì, in silenzio.

La notte, davanti al computer, feci i conti. Con quella vincita potevo permettermi un mese in Italia. Se avessi venduto la vecchia dacia, forse sei. Per la prima volta mi chiesi: “E io? Non ho diritto a un pezzetto di felicità tutta mia?”

Le figlie non capirono. Rise una, si arrabbiò l’altra. Mi dissero egoista, incosciente. Ma io non ero più disposta a vivere come un’ombra. Comprai un biglietto di sola andata per Roma.

Ricorderò sempre il sorriso dell’autista del taxi quando gli dissi:
— Non è un viaggio di lavoro. È un sogno.

Roma mi accolse sotto la pioggia. Alla reception dell’albergo, la ragazza mi salutò con un: “Benvenuta a casa.” A casa. Una parola che mi fece venire le lacrime agli occhi.

Poi arrivò Anna, una donna che come me era partita per due settimane ed era rimasta per sempre. Mi trovò una stanza a Trastevere. Piccola, ma mia. E, quasi senza accorgermene, iniziai a insegnare russo ai bambini di famiglie emigrate. Venti euro l’ora: non una fortuna, ma il primo passo verso la mia indipendenza.

Un giorno, Anna mi propose di sostituirla come guida per turisti russi. Passai la notte a ripassare date, storie, leggende. Tremavo, ma appena iniziai a parlare del Colosseo, la voce trovò forza. Raccontai come se Roma fosse sempre stata dentro di me. Alla fine, i turisti mi applaudirono. E io stringevo nelle mani 150 euro, guadagnati con la mia passione.

La sera, in videochiamata, dissi a mia figlia:
— Lavoro. Sono guida turistica. E sono felice.
Lei rimase in silenzio, poi sussurrò:
— Mamma, sono fiera di te.

Adesso vivo così. A volte accompagno gruppi di turisti, a volte sorseggio un cappuccino al bar, a volte semplicemente cammino per Roma senza meta. Ho settant’anni, sì. Ho un ginocchio che fa male, certo. Ma finalmente vivo.

E sapete una cosa? Non è mai troppo tardi. Non importa quanto tempo resti. Basta che sia tempo vissuto per sé, non solo per gli altri.

Quel biglietto della lotteria non mi ha regalato denaro. Mi ha regalato coraggio.

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