«Raccogli le tue cose e vattene in una comune. Ora vivo io qui», rideva l’amante del marito. Ma arrivata dal notaio, urlò…

La porta sbatté con una tale forza che nell’appartamento risuonò un eco metallico, come se vi fosse entrato il vento del destino altrui. Sul tappeto rimasero le tracce — tacchi sottili, l’aroma di un profumo costoso, occhi pieni di risa, ma non i suoi, non quelli familiari.

— Raccogli le tue cose e vai a vivere in dormitorio, — disse lei quasi sorridendo, facendo tintinnare un mazzo di chiavi. — Ora qui ci abito io.

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Ad Anna all’improvviso mancò l’aria. La cucina si strinse, come un corridoio davanti a una sala operatoria, dove tutto è già deciso. Al tavolo sedeva Igor — suo marito. Non arrabbiato, non ubriaco, solo smarrito, come un ragazzino davanti alla lavagna che non sa la risposta. Sul fornello borbottava una zuppa, sul davanzale si raffreddava il latte, e dietro la parete i bambini — il decenne Timofej e la piccola Sonja di cinque anni — sfogliavano le pagine di un libro. In quel fruscio c’era tutta la sua vita: favole della buonanotte, fazzoletti per il raffreddore, stivali autunnali da rodare, tazze incrinate ma piene di calore.

— I bambini dormono, — disse piano Anna. — Per favore, non alzate la voce.

— Ma noi non stiamo gridando, — sorrise la nuova donna. — Siamo civili. Igor, caro, facciamo in fretta. Domani dal notaio — e tutto finito. Vendiamo questo appartamentino, compriamo qualcosa di più grande, con vista sul sole. E lei… — un cenno verso Anna — che se ne vada da sua madre o in dormitorio.

Anna guardò il marito. Un tempo lo amava per il suo riso, per come riusciva a ricaricare il telefono con una vecchia radio da pesca. Ora davanti a lei c’era un uomo che aveva trovato in un’altra donna un rifugio per la sua debolezza. Ma lei non era ghiaccio da spezzarsi al freddo, era pietra nel greto: l’acqua colpisce, e lui resta lì, saldo.

— Va bene, — disse dopo una lunga pausa. — Andiamo dal notaio. Solo prima lavo i piatti. E domani i bambini hanno scuola.

La nuova sbuffò, offesa, ma si ritrasse. La routine salva, pensò Anna indossando i guanti di gomma. Lavare i piatti è come una preghiera: le mani occupate, la testa si calma.

Quella notte non pianse. Restò in cucina con una tazza di tè nero senza zucchero, ascoltando il calore che crepitava nei termosifoni. Sul telefono i messaggi delle amiche: «Resisti, Anka», «Chiama se hai bisogno», «Siamo con te». Lei rispondeva a tutte: «Grazie». E pensava a quanto sia facile che i sogni crollino — come castelli di carte al soffio dei desideri altrui. Ma ci sono i bambini. E se ci sono i bambini, la strada è sempre una sola — avanti.

Al notaio andarono in tre: Igor, Anna e quella che si chiamava Valerija. L’ufficio odorava di carta, inchiostro e lunga attesa. L’orologio al muro muoveva le lancette con sicurezza, come se sapesse dove andare.

— Tutto standard, — disse allegra Valerija compilando la richiesta. — Lui mi dona la sua quota, vendiamo subito l’appartamento. In una settimana si fa. Ho già il mutuo approvato.

La notaia — una donna in giacca severa — studiò i documenti, digitò i dati, strizzò gli occhi, stampò un estratto dal registro e alzò lo sguardo.

— Mi scusi, — disse pacata, — ma avete letto bene i documenti?

— E cosa c’è da leggere? — rise nervosa Valerija. — L’appartamento è stato comprato in matrimonio. Metà sua, metà sua. Lui mi cede la sua parte e basta.

— Il fatto è, — precisò la notaia, disponendo i fogli, — che l’appartamento è in comproprietà: Anna Petrovna — una metà, Timofej Igor’evič — un quarto, Sof’ja Igor’evna — un quarto. Le quote dei figli risultano iscritte, perché l’acquisto fu fatto con il capitale maternità. Qualsiasi operazione richiede il consenso dei servizi tutelari. E senza garantire un alloggio equivalente, tale consenso non viene dato.

Valerija impallidì, come se la luce si fosse spenta d’un colpo.

— Come sarebbe che i bambini sono proprietari? — sussurrò. — Ma lui è il padre!

— Sì, il padre, — confermò la notaia. — Ma i proprietari sono la madre e i due figli minorenni.

Alla fine, Igor rimase senza appigli, Valerija se ne andò, e Anna comprese: i documenti sono la vera difesa, non le promesse.

La vita dopo non divenne subito facile. Igor andò e tornò, portò pochi soldi, trovando scuse. Anna capì che doveva contare solo su sé stessa. Si impiegò come amministratrice in una clinica periferica, cuciva abiti e tende la sera, imparò a sistemare cerniere lampo in un minuto. Trasformò la cucina in una piccola sartoria.

Con i figli parlava da pari. Timofej maturò: buttava la spazzatura, discuteva d’inglese, sognava il tennis. Sonja disegnava quattro figure, una colorata di grigio.

— Chi è? — chiedeva Anna.

— Lo zio Nebbia, — rispondeva seria Sonja. — Viene e se ne va. Noi non lo chiamiamo.

Gli anni passarono. Igor cercò di tornare, ma Anna era cambiata: senza odio, senza vendetta, solo con chiarezza. «Perdono non è un cerotto», disse. «Tu sei il padre dei miei figli, lo rispetto. Possiamo vivere in pace, ma indietro non si torna».

Un giorno d’autunno Anna si rivide nello specchio del notaio: una donna in cappotto semplice, con occhi senza più paura. «Questa sono io», pensò. Non una vittima, non un’eroina, ma una persona che ha imparato a guardare avanti.

E quando ricordava quel giorno — la porta che sbatte, i tacchi estranei, le parole «vattene in dormitorio» — le veniva da sorridere. Perché lì dove la volevano cacciare, lei aveva costruito una casa. Non ricca, non brillante, ma affidabile. Piena di tè caldo, quaderni che frusciano e menta che cresce sul davanzale.

E se qualcuno le avesse chiesto come avesse fatto a sopravvivere, avrebbe risposto semplicemente: «Ho vissuto. Giorno dopo giorno. Non ho avuto paura di dire “no”, né di tacere. Ho custodito i miei figli come luce».

Un giorno Sonja portò dall’asilo una casetta di cartone con il tetto rosso. Sulla porticina scrisse: «Qui viviamo noi». Anna la mise sulla mensola. Era il loro stemma: la casa dove “noi”, e non “invece”.

E questa fu la sua vittoria — silenziosa, vera, forte. Perché la vita, anche spezzando, insegna comunque a costruire. E se costruisci non dal dolore, ma dal rispetto per te stessa e per i tuoi, la casa diventa calda. E dura per molti anni.

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