Nonna, ti prego, portami via!

— Nonna, ti prego, portami via. Papà ha ricominciato a bere. Mi ha picchiato ieri. Non voglio più vivere qui. Per favore…

La voce di Misha tremava al telefono. Galina stringeva il cellulare così forte che le nocche divennero bianche.

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— Misha caro, dove si trova adesso tuo padre?

— Dorme. In cucina. Io mi sono chiuso in bagno. Questo è il telefono di Vova, un compagno di classe. Il mio papà l’ha buttato dalla finestra.

— Sto arrivando. Vado subito. Resta in silenzio, mi hai sentito?

— Nonna, lui ha bloccato la porta. Per non farmi scappare da te.

Galina si stava già mettendo il cappotto. Le mani tremavano. Nella testa rimbombava un solo pensiero: arrivare in tempo. Solo questo.

Il taxi sembrava muoversi a passo di lumaca. Ogni semaforo era un’eternità. Galina provava a chiamare Ivan. Niente risposta. Di nuovo. Silenzio.

Un anno prima era morta Lena. Sua figlia. Il cancro se l’era portata via in tre mesi. Galina allora aveva detto subito: «Porterò Misha con me». Aveva una stanza, una buona pensione. Ce l’avrebbe fatta.

Ivan si era messo davanti alla porta. Già ubriaco al funerale.

— È mio figlio. Ce la farò da solo.

Non ce l’ha fatta. Prima beveva solo la sera — per affogare il dolore. Poi ha iniziato al mattino. Ha perso il lavoro. Viveva con la pensione della madre e gli ultimi sussidi.

Galina andava a trovarli. Misha apriva la porta — magro, con occhi enormi. Nell’appartamento puzzava. Bottiglie vuote sul tavolo. Ivan sul divano, sporco e non rasato.

— Misha, vieni a vivere con me?

— Papà non vuole.

— E cosa dice papà?

— Che se me ne vado, mamma si rattristerà dall’aldilà. Che sarei un traditore.

Bastardo. Usava la figlia morta per manipolare. Galina aveva provato a rivolgersi ai servizi sociali. Quelli erano arrivati — Ivan li aveva accolti sobrio. Appartamento in ordine. Misha vestito bene.

— Va tutto bene qui. Vero, figlio mio?

Misha annuiva. Cos’altro poteva fare?

Il telefono squillò. Numero sconosciuto.

— Sono Vova. Il compagno di classe di Misha. Mi ha chiesto di chiamare. Sta per scaricarsi la batteria.

— Grazie, Vova. Grazie di cuore.

Ingresso. Terzo piano. Galina saliva aggrappandosi al corrimano. Il cuore batteva forte. Solo che non fosse troppo tardi.

La porta era chiusa. Suonò. Silenzio. Bussò.

— Ivan! Apri! Sono io!

Nessuno. O forse faceva finta di non esserci?

Galina compose il 112.

— Polizia? Mio nipote è rinchiuso con suo padre ubriaco. Il bambino ha chiamato chiedendo aiuto. L’indirizzo è…

Aspettò venti minuti. Venti minuti infiniti. I vicini sbirciavano. Bisbigliavano. A Galina non importava nulla.

Arrivò la polizia — due ragazzi giovani. Bussarono. Suonarono.

— Signore, apra! È la polizia!

Silenzio.

— Forzate la porta, — Galina non resistette. — Dentro c’è un bambino!

— Signora, non possiamo farlo così…

— Lui lo picchia! Il bambino è chiuso dentro!

I poliziotti si guardarono. Uno andò a prendere gli attrezzi.

La serratura cedette al terzo tentativo. La porta era bloccata da qualcosa. Sì — una scaffalatura.

Riuscirono a entrare. Dentro puzzava — di alcol, sporcizia, muffa. Ivan era in cucina. Per terra. Russava.

— Misha! — Galina si mise a cercare.

Il bagno era chiuso dall’interno.

— Misha, sono la nonna! Apri!

Scattò la serratura. La porta si aprì leggermente. Il bambino era seduto in un angolo, abbracciando un vecchio orsetto di peluche. Lo stesso che Lena gli aveva regalato a tre anni.

Un livido sotto l’occhio. Il labbro spaccato. La maglietta strappata.

— Nonna…

Galina si inginocchiò. Lo abbracciò. Misha si aggrappò a lei e scoppiò a piangere. Piano, soffocato. Come piangono i bambini che hanno paura di fare rumore.

— Basta, amore. Basta. Ti porto via con me.

I poliziotti svegliarono Ivan. Borbottava, senza capire cosa stesse succedendo.

— Il suo nome?

— E voi chi siete? Che ci fate a casa mia?

— Abbiamo ricevuto una segnalazione di violenza domestica.

Ivan si alzò. Barcollò. Vide Galina con Misha.

— Ah, sei venuta. Vuoi portarti via il ragazzino? Non te lo do!

— Si calmi, signore.

— È mio figlio! Mio! Capito?

Provò ad alzarsi. Ricadde.

— Portatelo via, — disse all’improvviso a Galina. — Tanto sto male con lui. Urla sempre. Vuole da mangiare.

— Papà… — Misha si raggomitolò.

— Stai zitto! È per colpa tua che è morta tua madre! Ti ha partorito e ha perso la salute!

Galina fece da scudo col corpo.

— Basta! Davanti al bambino!

— Bambino… È un peso, non un bambino. Portalo via. Starò meglio.

I poliziotti scrivevano il verbale. Galina raccoglieva le cose di Misha. Poche — un paio di magliette, dei jeans. Libri. L’orsetto.

— I documenti dove sono? — chiese a Ivan.

— Che ne so? Da qualche parte.

Li trovò in un cassetto. Certificato di nascita. Tessera sanitaria. Tutto.

Fuori, Misha respirò a pieni polmoni. Come se non avesse respirato da un anno.

— Andiamo a casa, — disse Galina.

— A casa tua?

— A casa nostra. Ora è anche la tua casa.

In taxi Misha stava zitto. Guardava fuori dal finestrino. Galina gli teneva la mano. Mano magra e fredda.

A casa — prima cosa, un bagno. Mentre Misha si lavava, Galina preparava la cena. Semplice — pasta al formaggio. Tè con biscotti.

Misha mangiava in silenzio. Affamato. Quando aveva mangiato bene l’ultima volta?

— Domani andiamo al pronto soccorso. Quel livido va controllato.

— Non serve, nonna. Passerà da solo.

— Serve, Misha caro. E andrò anche a scuola. Parlerò con gli insegnanti.

— È da tanto che non ci vado. Forse un mese.

— Non fa niente. Recupereremo.

Lo fece dormire nella stanza di Lena. Ancora intatta. Solo le lenzuola le aveva cambiate.

Misha si sdraiò. Stringeva l’orsetto al petto.

— Nonna, papà verrà a prendermi?

— Non verrà. Non lo permetterò.

— E se ci sarà un processo? È pur sempre mio padre.

— Non preoccuparti. Mi occuperò di tutto. Dormi.

Di notte lo sentì piangere. Piano, nel cuscino. Voleva entrare — ma non lo fece. Doveva sfogarsi.

Al mattino andarono al pronto soccorso. Poi ai servizi sociali. Galina era già conosciuta lì.

— Lo ha portato via, finalmente?

— Sì.

— Ci dia i documenti. Faremo la tutela provvisoria. Poi si vedrà.

Due settimane passarono in fretta. Galina andava a scuola, parlava con i professori. Misha iniziò a studiare con un tutor — aveva perso molto.

Ivan non si fece vivo. Nessuna chiamata. Come se il figlio non fosse mai esistito.

Misha cambiava. Non sobbalzava più ai rumori forti. Cominciava a sorridere. Raramente, ma sinceramente.

Cucinavano insieme. Galina gli insegnava a fare i blini — Lena li adorava da piccola.

— Non mi riescono, nonna. Si attaccano.

— Riusciranno. Scalda meglio la padella.

La sera leggevano. Galina ad alta voce. Misha ascoltava raggomitolato sul divano. Come un gattino.

Un mese dopo. Sabato. Galina impastava per i pirozhki. Misha aiutava — impacciato, ma volenteroso.

— Nonna, posso chiederti una cosa?

— Certo.

— Mamma… si è ammalata davvero per colpa mia?

Galina si fermò. Si asciugò le mani.

— No, tesoro. Assolutamente no. La mamma si è ammalata. Nessuno ha colpa. Né tu, né papà, nessuno.

— Ma papà diceva…

— Papà parlava per il dolore. E per la vodka. Non ascoltarlo. La mamma ti amava più della sua stessa vita. Eri la sua gioia.

Misha annuì. Rimase in silenzio.

— Nonna, grazie per avermi portato via. Non voglio più tornare lì. Mai più.

Galina abbracciò il nipote. Lo strinse forte. Misha affondò il viso nel grembiule.

— Non devi. Ora sei con me. Per sempre.

— E se papà…

— Non verrà. E se verrà — non ti lascerò. Te lo prometto.

La sera sedevano in cucina. Tè e pirozhki. Fuori nevicava. La prima neve dell’anno.

— Sai cosa diceva tua mamma? — Galina sorrise. — Che la prima neve porta felicità.

— Davvero?

— Davvero. Lei era sempre felice quando nevicava per la prima volta.

Misha guardava fuori dalla finestra. Sul volto — l’ombra di un sorriso.

— Nonna, posso andare domani in pista di pattinaggio? Mi hanno invitato i ragazzi della classe.

— Certo che puoi. Dobbiamo solo trovare i pattini. Devono essere in dispensa da qualche parte.

Una domanda normale. Semplice. Sullo sport, sugli amici. Non sulla paura. Né sul dolore.

Galina guardava il nipote e pensava — ce la faremo. Crescerà. Studierà. Dimenticherà l’incubo.

Non lo dimenticherà, certo. Ma imparerà a vivere. Nonostante tutto.

Fuori cadeva la neve. La prima. Quella della felicità.

Se desideri, posso anche convertirlo in una versione più letteraria o adatta alla pubblicazione.

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