Vera Ivanova, curva su se stessa, uscì dall’aula di tribunale — come se la sua anima fosse rimasta lì, sulle gelide panche, avvolta da parole secche e sguardi indifferenti. Sembrava l’ombra di se stessa, come se la sua vita fosse stata cancellata, come una parola superflua in un testo. Il cappotto grigio, stropicciato e gettato distrattamente sulle spalle, stava per scivolare giù, come se anche lui si rifiutasse di sostenerla. I capelli, un tempo ordinatamente acconciati, ora erano aggrovigliati e le ricadevano sul volto in una pesante nube. Le braccia le pendevano inerti, ma una — sottile e pallida — stringeva con forza la piccola mano del figlio, come se solo in quel tocco restasse un legame con la realtà.
— Mamma… — sussurrò Löva, nascondendo il volto agli occhi degli altri, come se sapesse che sua madre non aveva più la forza di proteggerli.
Vera non riusciva a sollevare lo sguardo. Era finita. Era la fine. Ciò che era stato — era sparito, come se non fosse mai esistito. Mark l’aveva fatto. Aveva distrutto la loro famiglia, tolto quasi tutto, calunniato Vera facendola passare per una traditrice, e persino convinto il figlio che la colpa fosse tutta sua. Un nodo di amarezza le salì alla gola, il dolore le si serrò nello stomaco, il respiro le si fece corto. La memoria le restituì traditrice quella scena: tre mesi prima, in cucina, un’altra donna, il profumo troppo intenso, troppo costoso, e la risata di Mark — uguale a prima, ma non più per lei. Ricordava le sue parole, dette come se parlasse del tempo:
— Non azzardarti a fare scandalo. Ti conviene tacere.
Ora, nel caotico corridoio del tribunale, tutti sfrecciavano indaffarati. Uno masticava una gomma, un altro cercava una cartella smarrita nella borsa. Nessuno vedeva il suo dolore, nessuno sapeva che dentro di lei c’era un vuoto. Tutti erano presi dalle proprie vite. E la sua vita era appena crollata come un castello di carte. Stringendo la mano di suo figlio — unico punto d’appoggio in quel mondo — Vera sapeva di dover resistere. Tutto il resto sarebbe venuto dopo.
All’ingresso del loro vecchio appartamento, Vera esitò per la prima volta in anni. Sui gradini di cemento, dove un tempo avevano vissuto felici, giacevano le loro cose, misere pile di oggetti: una valigia dal nastro verde logoro, un sacchetto di giocattoli, una scatola con scritto “Documenti”. Tutto ricoperto di polvere; la pioggerella aveva scolorito i tessuti, lasciando aloni scuri. Löva si strinse a lei:
— Mamma, torniamo a casa?
Vera asciugò il naso del bambino con un lembo della sciarpa, provò a sorridere benché le labbra tremassero:
— Casa è dove siamo insieme adesso.
Sollevò la scatola, fece rotolare la valigia. Dietro la porta avevano lasciato la loro vita di prima — chiusa per sempre, come un sipario calato dopo l’ultimo atto.
Vera chiamò l’amica Polina. Questa aprì in accappatoio, la casa profumava di caffè e vaniglia. Polina abbracciò Vera, strinse delicatamente Löva a sé:
— Vieni da me per un po’. Riposa.
I figli di Polina dormivano già. Durante la cena, l’amica catturò lo sguardo di Vera più volte, abbassando sempre gli occhi. Nell’aria aleggiava un’imbarazzante tensione, sospesa come la pausa che gravava sulla pentola di pasta.
— Scusami… — mormorò infine Polina — Mark mi ha parlato. Ha insinuato che hai avuto problemi con la legge, con sostanze pericolose. Mi ha chiesto di stare alla larga.
Un altro colpo al cuore. Anche lì, in quella casa che un tempo era piena di risate e foto felici, Vera si sentiva estranea. Löva divorava il cibo come se temesse di essere scacciato.
Dopo pochi giorni, Polina si schernì di nuovo con voce spaventata:
— Ho paura per i miei bambini. Mark lo ha già raccontato a tutti. Mi sono persino “arrivate” delle tue “certificazioni mediche”.
— Quali certificazioni?
— A quanto dicono, avresti una malattia sociale pericolosa e brutte abitudini. So che è falso, ma come posso difendermi? Anche l’insegnante di mio figlio mi ha chiesto spiegazioni su di te.
La casa calda si era trasformata in una gabbia. Vera riempiva borse di fretta, con il cuore in tumulto. Löva singhiozzava:
— Voglio il mio orsacchiotto. Perché papà non ce lo ha lasciato?
— Papà ora non può pensarci, tesoro — lo rassicurava Vera.
Quella notte la passarono alla fermata del bus, al chiarore arancio di un lampione. La polvere della strada, l’erba bagnata sotto i piedi. Löva dormiva col capo sul suo ginocchio. Vera guardava il cielo scuro, senza stelle.
Decise:
— Andiamo al nostro dacha, Lövushka. Ricordi la casa nel villaggio? Dove mangiavamo i lamponi d’inverno.
La notte sembrava infinita, come la strada davanti a loro: solo vaga speranza e un vecchio casolare ai margini di sentieri dimenticati.
Il villaggio li accolse con polvere, pioggia e tempo fermo. La recinzione ricoperta di ortiche pendeva come a implorare il ritorno dei padroni. Il melo dietro la casa lasciava cadere foglie rosse e gialle, e sul sentiero non pareva mai aver messo piede un uomo.
Vera alzò il bavero, inspirò l’odore dell’erba marcita e del fumo del forno: una sorta di conforto pungente.
— Mamma, restiamo qui a lungo? — chiese Löva, zampettando sul portico bagnato.
— Vedremo, piccolo. Dobbiamo mettere in ordine.
Iniziarono lavando le finestre: Löva disegnava buffe facce con le bolle di sapone sul vetro, e Vera rideva, rendendosi conto che era la prima volta da mesi che non piangeva.
— Mi aiuti col sentiero? — propose lei. Löva corse a prendere una paletta e insieme spazzarono rami e foglie secche.
Quando la stanchezza diventò insopportabile, Vera mise il figlio nella vecchia branda. Alla luce soffusa della lampada, la camera sembrava quasi accogliente. Löva si rannicchiò accanto a lei:
— Andremo più dal papà?
Vera lo strinse a sé, trattenendo il tremito:
— Adesso siamo soli, Löva. Andrà tutto bene.
Tardi, quando Löva si addormentò, Vera aprì il portatile. Le dita le tremarono sulla tastiera: voleva sparire, non voler essere più Vera Ivanova.
Cominciò comunque a scrivere:
«Semën Vasil’evič, buona sera. Sono costretta a lasciare la città per motivi personali. Possibile lavorare da remoto?»
La risposta arrivò la mattina dopo.
— Vera — disse il capo con voce calma — conosco la situazione. Proviamo a metterti in smart working. L’importante è che non cedi e non ricominci con… beh, sai tu… Due mesi, poi vediamo.
Vera avvertì un piccolo appiglio. Anche se flebile, era reale.
Giorno dopo giorno Vera raccoglieva documenti, setacciava lettere, cercava di ricordare cos’altro servisse per la seconda udienza. Di notte piangeva sommessamente, pensando a come non spezzarsi. A volte Löva le portava una tazza di tè o un buffo lavoretto di plastilina:
— Non essere triste, mamma.
Poi arrivò una citazione a comparire in tribunale dopo una settimana. Vera fece fatica a non urlare.
La seconda udienza fu peggiore della prima. Nell’aula soffocante irrompeva Mark — esausto ma aggressivo — e subito alzò la voce, lanciando cartelle di qua e di là:
— Vostro onore — gridò — mi ingannava sistematicamente, mi nascondeva redditi. Potrei aggiungere molto altro!
Vera rimase in silenzio, guardando il muro. Il giudice, un uomo intorno ai cinquant’anni dagli occhi stanchi, alzò un sopracciglio:
— Altri prove, signor Mark?
Mark scrollò le carte, facendo cadere qualche foglio. L’avvocato borbottò. Vera provò a parlare, ma il giudice la interruppe bruscamente:
— Avrà la parola più tardi.
La pausa si dilatò inesorabile. Pareva che tutti respirassero solo per la prossima battuta.
Infine il giudice lesse la sentenza con voce roca:
— Alla signora Ivanova spetta esattamente metà del dacha, l’indirizzo le è noto. Nessun’altra pretesa.
Mark infilò le mani nelle tasche e uscì dall’aula. Sulla scala tronò:
— Ti farò sistemare qualche vicino, capito?
Vera si raddrizzò, guardandolo negli occhi con glaciale calma:
— Sono contenta che sia finita.
Ma dentro di sé si sentiva vuota come un guscio. Il cervello pulsava, la forza la abbandonava a ogni passo. Aveva vinto — e aveva perso tutto.
Un monologo silenzioso e straziante lacerava il suo animo: «Perché tutti pensavano fossi colpevole solo io? E lui? Le sue bugie, le altre donne, i pettegolezzi — ricadde tutto su di me».
Ancora tornava a casa vuota, cercando di non piangere davanti a Löva. Viveva come in un abisso. Chiamava quei giorni “il secondo fondo”.
Dopo tre giorni di quiete e attesa ansiosa, in una sera tranquilla, quando il crepuscolo raffreddava l’aria, Vera udì un colpo secco alla porta. Si immobilizzò, il cuore le saltò in petto. Sulla soglia stava un uomo — alto, spigoloso, come uscito dall’ombra del passato. La giacca logora pareva pelle per lui; la barba di qualche giorno gli conferiva l’aspetto di chi non ha mai conosciuto comodità. Sul polso, attraverso la stoffa consumata, si intravedevano tatuaggi — non vistosi, ma come ricordi incisi.
Sul volto niente sorriso, nessuna minaccia. Solo quiete. Posò la borsa a terra e disse con voce secca:
— Buonasera. Ho preso in affitto metà di questo dacha dal suo ex.
Vera fece un passo indietro, strinse Löva a sé. Un brivido di incertezza la attraversò:
— Capisco. Ho un bambino con me. Spero non le dispiaccia.
L’uomo annuì brevemente:
— Mi chiamo Artyom Pavlovič. Non darò fastidio.
Detto ciò, entrò nella sua metà di casa e richiuse la porta. Squillò un telefono in fondo al corridoio. Vera rimase immobile, assalita da paura, ansia, o forse semplice stordimento.
Quella notte non chiuse occhio. Controllava porte e finestre, come se la casa fosse piena di fessure da cui potesse insinuarsi il pericolo. Tenne Löva sul petto, attenta a ogni fruscio fuori, a ogni ramo mosso dal vento. Aveva paura. Paura dell’ignoto. Paura che il passato li raggiungesse di nuovo, come in tribunale, nel corridoio di Polina, nell’appartamento dell’amica.
Nei due giorni seguenti Artyom si fece vedere poco. Era un’ombra dietro il muro, senza invadere la loro vita. Eppure un pomeriggio, mentre Vera era nel cortile a raccogliere rami spezzati dalla pioggia, la raggiunse una risata di bambino. Löva, con le guance arrossate, giocava a pallone con altri ragazzini. E fra di loro c’era Artyom, che respingeva il pallone con destrezza, muovendosi leggero come chi non porta più il peso di un macigno. Rideva. Lo spettacolo colpì Vera.
Si diresse verso il portico. Artyom, notandola, si sedette sui gradini e le disse con tono quasi gentile:
— Non ha paura? Non attacco i figli altrui. Anzi, aiuto, quando c’è bisogno.
Si mise a parlare — non di sé, non del passato, ma della vita, di quanto sia importante esserci, quando serve. Raccontò che tempo fa era finito in carcere — non per bravate, ma per difendere l’ex moglie. Lo disse senza giustificazioni, senza orgoglio. Solo un fatto.
Vera fu sinceramente sorpresa. Non c’era rabbia in lui, né arroganza ubriaca, né vuoto. Solo calma. Fiducia. Maturità.
— Grazie per la sincerità — disse finalmente lei, sorridendo per la prima volta. — Cercherò di non darle fastidio, ma se avrò paura, lo dirò subito.
Artyom annuì piano:
— Andrà tutto bene. Viviamo da umani.
Quella notte Vera dormì meglio degli ultimi mesi. Per la prima volta dopo il tribunale, la fuga, la distruzione, sentì di non essere sola.
Con l’arrivo della primavera, l’aria profumò di rinascita. La neve si sciolse, la terra si risvegliò, gli alberi si coprirono di gemme. Un giorno Artyom propose:
— Vuole aiuto per sistemare il giardino?
Vera esitò, poi pochi minuti dopo il cortile brulicava di vita. Artyom maneggiava la vanga con abilità, Löva correva portando rametti e foglie, vantandosi del suo “aiuto”. Poi Artyom insegnò a Löva come piantare chiodi:
— Guarda, così — e fece un colpetto sicuro, lontano dalle dita.
Vera osservava dalla finestra, e per la prima volta vide in Artyom non un vicino minaccioso, ma un uomo vero. Uno che non fugge dal passato ma costruisce il presente. Uno che sta accanto, quando c’è bisogno.
Quella sera lo invitò a cena:
— Vuole mangiare con noi?
Le parole furono difficili, aveva timore di esporsi troppo. Ma Artyom, un po’ imbarazzato, accettò. Si lavò le mani nel cortile, si sistemò i vestiti. Aveva poco più di quarant’anni, ma negli occhi portava la saggezza di chi ha vissuto.
A tavola Löva si ambientò subito, mostrava i suoi lavoretti, raccontava la scuola. Artyom ringraziava per il cibo, tendeva le maniche in modo timido, ma ascoltava con rispetto. Parlò dei suoi progetti: aveva procurato del legname per costruire un gazebo. E Vera capì che voleva far parte di quella casa, non solo viverci, ma contribuire.
Presto le cene divennero routine. Le conversazioni facili. Le risate frequenti. Vera, pur con timore, attendeva ogni incontro con autentico piacere. Il mondo, che le era parso distrutto, prendeva di nuovo forma.
Il giardino si riempì di fiori. Ogni mattina ascoltava Artyom e Löva discutere di libri o giocare. La sera preparavano il tè, uscivano in veranda a guardare il tramonto come se ogni giorno fosse l’ultimo e il più prezioso.
— Non avrei mai pensato che la natura fosse un universo intero — confidò Artyom una volta, versando il tè.
Vera sentiva un calore nuovo, e insieme il timore di sbagliare ancora. Ma nei suoi occhi c’era qualcosa di più che gentilezza. C’era sincerità. Affidabilità.
Löva adorava il vicino. Lo chiamava “zio Artyom”, gli portava cioccolatini, disegni, biglietti. Quando il bambino dormiva, lei e Artyom passavano dalle chiacchiere leggere a temi di cuore.
Una sera Artyom si sedette sui gradini, abbracciando le ginocchia, in silenzio. Poi disse:
— Vera, sei una brava donna, davvero. Però ho un passato che non si cancella. Dovrei andarmene, non voglio intralciare. Meriti di meglio.
Le sue parole rimasero in gola. Löva già dormiva. Nella stanza la lampada diffondeva una luce calda, sottolineando l’importanza del momento.
— Ci servi, Artyom. Non importa il passato. Conta chi sei adesso — rispose Vera, alzando gli occhi. — Siamo noi a scegliere chi è famiglia per noi.
Ci fu un lungo silenzio, rotto solo dal vento fra le foglie.
Artyom prese la sua mano con tenerezza e fermezza:
— Se è davvero ciò che vuoi, proverò a restare.
Lei annuì. Un calore le avvolse il petto. Il cuore si colmò di luce.
Un anno dopo.
Vera scese da una macchina nuova — non era più la donna spezzata e abbandonata, ma sicura di sé, con la schiena dritta e lo sguardo sereno. Entrò nell’ufficio di Mark senza esitare e posò sul suo tavolo una cartellina nera.
— Che cos’è? — sbottò lui.
— I soldi per la tua metà del dacha. Posso permettermelo adesso. Ho una famiglia.
Mark rise stupito:
— Quale famiglia?
Vera sorrise, disinvolta, libera come mai prima:
— Lo vedrai presto.
Il giorno dopo Mark arrivò al dacha: la casa era irriconoscibile. Nuova recinzione, aiuole curate, vernice fresca nell’aria. In veranda c’erano Vera, Löva e Artyom. Lui, in maglietta, con il trapano in mano e un sorriso vivace, stava costruendo un garage.
Mark tentò di avvicinarsi, chiamò il figlio, ma Löva, vedendo il padre, si strinse impaurito ad Artyom.
Artyom strinse gli occhi, incrociò le braccia, il suo sguardo si fece severo:
— Vai via — disse con calma, ma con fermezza.
Mark fece un passo indietro, poi si voltò e se ne andò, lasciandosi dietro solo la polvere del passato.
Quella sera Vera mise a letto Löva, gli baciò la fronte, poi sorrise posando la mano sul suo pancione. Il mondo in cui viveva era finalmente al sicuro. Un mondo che non aveva più edificato dalle rovine, ma dall’amore.