— Stepanich, se reggo ancora un turno senza un giorno di riposo, sposerò la prima che capita, purché mi cucini il borshch — disse stancamente Igor Viktorovič Mednikov, chiudendo gli occhi e reclinandosi sul sedile logoro della vecchia «Gazela».
La sua voce era roca, come se frammenti di stanchezza gli scorressero in gola. Parlava più a sé stesso che all’interlocutore, ma attendeva comunque una risposta. Una risposta che gli permettesse almeno per un istante di dimenticare tutto, rilassarsi, sentirsi vivo.
Il paramedico Stepan Anatol’evič Kuznecov, piccolo, esile, con movimenti perennemente nervosi e lo sguardo di chi convive con la tensione, riprese a esaminare le fiale nel suo kit medico senza fermarsi, sbuffando:
— Sposarsi, Viktorovič, è cosa da nulla. Il problema viene dopo: divorziare. Soprattutto se la tua “borshchista” si incolla ai fornelli come se fosse radicata lì — e bisogna staccarla col bisturi.
Pavel, l’autista, uomo di poche parole — forse tre durante l’intero turno — si limitò a emettere un breve mormorio, guardando le luci della città scorrere oltre il finestrino. Per lui quelle chiacchiere erano parte del rituale notturno, un sottofondo appena percettibile alla lunga serie di interventi, sofferenze e vite altrui che raccoglievano in corsa, come foglie cadute d’autunno.
Igor sorrise, ma non era un sorriso gioioso: era più un amaro ghigno, quasi doloroso. Sapeva fin troppo bene di cosa stessero parlando. Sapeva cosa significava essere chirurgo. Qualche anno prima era stato uno di loro: giovane, talentuoso, pieno di ideali e dell’urgente desiderio di salvare vite. Si immaginava in sala operatoria, con gli strumenti in mano e la determinazione di fendere persino la paura. Ma la vita — capricciosa e imprevedibile come una donna — decise altrimenti.
La sua infanzia somigliava a un’infiammazione prolungata: dolorosa, fredda, solitaria. Suo padre, ubriaco fino allo svenimento, fu il primo a sparire, dissolvendosi in una sbornia come una macchia sul camice bianco. Sua madre resistette a lungo, cercando di fare la madre, ma l’alcol si rivelò più forte di lei. Si spezzò. Se ne andò, lasciando il bambino solo tra miseria, fame e indifferenza. La fame non era solo nello stomaco: era negli sguardi, nei corridoi consumati della scuola, in ogni passo che faceva attraverso quelle aule logore.
Eppure dentro di lui ardeva una scintilla. Confusa, ma ostinata. Studiò sodo, aggrappato ai libri come a un’ancora, dimostrando a se stesso che poteva risalire, sfuggire a quel destino. Suo nonno Nikolaj, uomo severo ma dal cuore buono, lo prese con sé. «I Mednikov non si arrendono», gli ripeteva, porgendo al nipote un pezzo di pane e una consolazione mascherata da rimprovero.
Gli anni d’Università passarono come un lungo respiro prima del crollo. Igor era il migliore del corso, un modello per gli altri. Lo chiamavano il futuro della chirurgia. Assaporò il successo fin troppo presto. Proprio allora conobbe Marina — una compagna di corso, tranquilla e riservata, un’oasi nel suo mare in tempesta. Pensavano di aver costruito una famiglia, ma era solo un inganno celato da parole dolci.
Litigi, isterie, accuse per il tempo che passava in sala operatoria… Igor tornava a casa con il cuore pesante. Finché accadde ciò che temeva di più: durante un’operazione la sua mano tremò. Per un istante appena. Ma bastò. Un collega se ne accorse e intervenne in tempo. Per Mednikov fu la fine. Non si perdonò quella debolezza. Appese il camice come un vessillo della sconfitta e si rifugiò nel pronto intervento, dove le decisioni erano più semplici, dove il dolore si poteva anestetizzare, non valutare come un destino.
Fu così che si ritrovò in quel furgone sgangherato, in compagnia di altre due persone stanche, condividendo la notte, il caffè e storie casuali.
La «Gazela» si fermò davanti a un edificio diroccato di due piani in un cortile buio, più simile a un set cinematografico d’atmosfera horror. La facciata a tratti scrostata, le finestre chiuse da tende sporche, l’aria impregnata di umidità e abbandono.
— Che deprimente — borbottò Pavel —. Qui, probabilmente, le creature dell’oltretomba sono già in attesa.
— Basta che non ci imbattiamo in qualcuno sulle scale — aggiunse Stepanich, mentre controllava il contenuto del suo kit.
Appena entrarono, la penombra del portone sfociò in un sorprendente calore domestico. Nella stanza, l’ordine regnava sovrano; nell’aria si avvertiva l’odore di pulito e di dolci appena sfornati. Al tavolo sedeva una giovane donna: Svetlana Sergeevna. Il suo volto tradiva ansia, ma negli occhi brillava ancora una speranza.
— Prego, entrate. Kirill ha la febbre alta e una tosse violenta…
Il bambino giaceva sul letto, pallido, gli occhi infuocati dalla febbre. Stepanich iniziò l’esame. La diagnosi fu impietosa: polmonite. Igor aprì il taccuino per predisporre il trasferimento in ospedale. Fu allora che il suo dito urtò un oggetto estraneo: un biglietto, piegato con cura e nascosto sotto il bloc-notes.
Lo srotolò con discrezione. Poche righe, ma ogni parola un colpo allo stomaco: «Per favore, dite che il bambino deve andare in ospedale. Vi prego. Ci uccideranno».
Un brivido gli corse lungo la schiena. Alzò lo sguardo verso la donna: non vedeva più solo una madre preoccupata, ma una persona vissuta nel terrore. Nei suoi occhi bruciava una supplica, nei gesti una panico trattenuto.
— Il bambino deve essere ricoverato immediatamente. Sospettiamo una polmonite acuta. Vi accompagniamo in ospedale — disse Igor con voce ferma.
Svetlana tremò mentre raccoglieva le sue poche cose. Kirill piangeva, incapace di capire la paura della madre. Ma il tempo per i timori non era finito: nel corridoio si udì un boato e poi un urlo furioso. La porta si spalancò e nell’anta apparve un uomo alto con un fucile in mano — Vjačeslav, il patrigno.
— Dove credete di andare?! — urlò, furioso.
Svetlana strillò, proteggendo il figlio. L’uomo, fuori di sé, puntò il fucile verso di lei. Lo sparo fu secco. La donna cadde a terra come un manichino, il sangue si sparse sul pavimento. Kirill urlò come un animaletto spaurito, privo di protezione.
Sconvolto, Vjačeslav puntò l’arma contro di sé. Un secondo colpo echeggiò nel corridoio e lui si accasciò accanto alla donna.
Regnò un silenzio irreale, rotto solo dal pianto del bambino. Igor balzò accanto a Svetlana e scattò in un balletto di movimenti rapidi e precisi: tutti i riflessi che credeva perduti tornarono improvvisamente a guidarlo.
— Stepanich! Un laccio emostatico! Presto!
In quell’istante era di nuovo un medico, non un uomo spezzato, ma lo specialista deciso a salvare una vita.
— Più veloce, Pavel! Dai gas! Sta perdendo troppo sangue! — gridò Igor mentre si affannava a tenere ferma l’arteria.
La «Gazela» sfrecciava tra le strade notturne come una falciatrice d’anime in corsa. Lampioni e fari lampeggiavano, passanti ignari osservavano la scena. Nel vano medico regnava un silenzio teso, infranto solo da istruzioni concitate e flebili gemiti della donna ferita.
Giunti in pronto soccorso, fecero irruzione come un fulmine a ciel sereno. Una infermiera, sorpresa, sobbalzò:
— Subito! Ferita da arma da fuoco al torace, emorragia massiva! — disse Igor con voce roca, sistemando la barella.
Lei corse verso il telefono per chiamare i chirurghi. Dopo pochi istanti un interno comparve nel corridoio, assonnato.
— Tutti i chirurghi sono occupati! Petrov è all’appendicite, Zavadskij è in ferie…
— Chi c’è allora?! — lo interruppe Igor, il sudore freddo lungo la nuca.
— Solo io… e Valerija, la nuova assistente.
Igor si voltò: una ragazza di ventitré anni, pallida, con i capelli scompigliati e gli occhi sbarrati, stava infilando all’ultimo un camice. Sembrava sul punto di svenire. Ma non c’era tempo per dubbi.
Svetlana stava esangue. Il suo volto era cadaverico. Ogni istante perso poteva significare la sua fine. Dentro Igor qualcosa fece clic: quella vecchia responsabilità riemersa dal profondo. Il chirurgo Mednikov, il migliore del corso, si era risvegliato.
— Preparate la sala operatoria — disse con decisione, fissando il giovane ordinario. — Opero io. Sotto la mia responsabilità.
Un silenzio carico di sbigottimento calò nella stanza. Valerija lo guardava, tra timore e ammirazione.
— Ma voi venite dal 118…
— Io sono chirurgo. E non esistono ex chirurghi.
L’operazione fu un inferno: la pallottola aveva lesionato l’arteria succlavia, e bisognava non solo fermare l’emorragia, ma anche ricostruire il vaso. Igor lavorò con precisione spaventosa, mentre un nodo di paura gli stringeva lo stomaco: «E se fallisco di nuovo?»
Le sue mani tremavano, ma davanti a sé vedeva non una paziente qualunque, ma una madre pronta a tutto per salvare il suo bambino. Rivide la sua infanzia di solitudine, il dolore, la paura di restare solo. Capì che non avrebbe permesso a Kirill di vivere quel destino.
— Valerija, stringi quella pinza! — ordinò. La sua voce era calma, sorprendentemente sicura.
Minute sembrarono ore. Quando finalmente l’ultimo punto fu fatto e il monitor segnalò un battito stabile, Igor percepì le ginocchia cedere. Togliendosi la maschera e asciugandosi il sudore, si appoggiò al muro prima di uscire.
Stepan era seduto nel corridoio, cullando Kirill che, esausto, si era addormentato. Il volto del bambino era rigato di lacrime ma respirava regolare, con il naso premuto contro la spalla del paramedico. Igor si avvicinò, passandogli una carezza tra i capelli, e si accucciò:
— Tua madre vivrà. Te lo prometto.
Il bambino si svegliò, fissò Igor con occhi grandi e troppo seri, poi scoppiò a piangere di nuovo, come se ogni paura accumulata si fosse liberata. Si rifugiò tra le braccia di Igor, che lo strinse forte senza dire una parola: quell’abbraccio era più caldo di qualsiasi parola.
Poi arrivarono polizia e pratiche, ma rimaneva un solo problema: che fare di Kirill? Non aveva altri parenti. I servizi sociali potevano portarlo via in qualsiasi momento. Igor rimase in silenzio, guardando il bambino incapace di comprendere di aver perso non solo la casa, ma l’unico familiare.
— Lo porterò con me — disse all’improvviso. — Anche solo per un po’, finché sua madre non starà meglio.
Non capì da dove venissero quelle parole: forse istinto, senso del dovere o semplicemente il cuore che trovava un nuovo scopo.
Vivere con un bambino fu per Igor come una seconda nascita. Non sapeva allacciare le scarpe, scegliere uno zainetto, quali libri leggessero i sei-enni. Comprava giocattoli troppo puerili o troppo maturi. Preparava porridge che bruciavano sul fondo. Ma Kirill li mangiava in silenzio, e a volte sorrideva.
Di notte, se il bambino singhiozzava, Igor si alzava, si sedeva accanto al suo lettino e gli restava vicino finché il respiro non tornava regolare.
Ogni giorno andavano insieme in ospedale: Igor teneva la mano di Kirill, e quella piccola manina riempiva la sua vita di un calore inspiegabile.
E Svetlana… la guardava con gratitudine infinita, un sentimento che andava oltre le parole. Nei suoi occhi c’era l’inizio di qualcosa di nuovo, di autentico.
Quando Svetlana fu dimessa, non aveva dove andare. Igor non esitò:
— Stai da me finché vuoi. L’appartamento non è un palazzo, ma c’è posto.
Quella sera cenarono in cucina: Kirill dormiva, Svetlana mescolava il tè avvolta nel maglione di Igor. A un certo punto cominciò a raccontare il suo passato: il sogno di diventare designer, l’incontro con Slavà, le parole dolci trasformate in incubo, il primo schiaffo, il secondo, il terzo, la morte del vicino, la fuga, la paura costante.
— Se non ci foste stato voi… — mormorò con gli occhi colmi di lacrime —, non saremmo qui.
Igor la guardò in silenzio e le strinse la mano: non c’era nulla di romantico in quel gesto, solo comprensione, calore e la promessa di restare.
Le settimane passarono. Non divennero subito una famiglia, ma pezzo dopo pezzo: un sorso di tè al mattino, un cartone insieme la sera, una storia prima di dormire, le risate di Kirill, sempre più frequenti. Piano piano l’appartamento si riempì di vita e affetto, dove prima regnavano vuoto e silenzio.
Una sera, con il bambino già addormentato, Igor disse:
— Forse dovresti cercare lavoro e una casa tua.
Svetlana rimase impalata, lo sguardo incerto.
— Sì… forse…
— Vuoi andartene?
Lo guardò negli occhi, che non fuggivano.
— No — sussurrò —, voglio restare.
Allora Igor sorrise davvero: non un sorriso triste o trattenuto, ma genuino. Capì che non era più solo e che la famiglia non è solo chi ti dà la vita, ma anche chi scegli di diventare, passo dopo passo, attraverso dolore, paura e speranza.
Quella notte Kirill fece un sogno: una grande casa, il sole, una mamma che ride e un uomo che chiamava “papà”. Non era solo un sogno, ma il primo passo verso una nuova vita.
E anche se la loro casa era ancora piccola, senza veranda, poggiava su fondamenta solide: amore, fiducia e voglia di stare insieme. Più che sufficienti.