— Svetka, ma sei tutta rinsecchita! Il viso è più bianco della carta. È successo qualcosa? — si preoccupò Katja, agitando le mani.

Svetlana si svegliò con una strana sensazione: il silenzio. Non un silenzio qualunque, ma così pieno e denso da sembrare un ronzio nelle orecchie. Un tale silenzio non lo aveva più notato nel suo appartamento, dove ogni mattina cominciava con il pianto di Liza e il correre di Misha. Ma oggi era diverso. Rimasta immobile, si concentrava su quel vuoto inusuale. Da qualche parte avrebbe dovuto sentire un «maaam!», eppure i minuti passavano e la casa restava immobile, come un lago in letargo.

Scattò sul letto e notò subito un biglietto piegato con cura sul comodino. Pavel. La sua calligrafia, breve e pratica:

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«Ho portato i bambini dai genitori per una settimana. Riposati. A proposito, papà sta meglio — l’ha detto mia sorella. P.»

Skrutò la stanza. Una settimana? Un’intera settimana senza capricci, pannolini, compiti scolastici, il fracasso dei giocattoli e il continuo «Mamma, aiutami! Mi ha spinto!». Per la prima volta dopo anni.

Dirigendosi in cucina, Svetlana si aspettava il solito caos. Invece regnava l’ordine perfetto. Nessuna traccia di fiocchi di cereali, nessuna scia appiccicosa di succo, nessuna matita sotto il tavolo. Si fermò a guardare il fornello, pronta a preparare la colazione per due bambini. Poi capì: oggi poteva semplicemente fare un caffè. Un caffè caldo e forte che, come per magia, non si sarebbe raffreddato prima di versarlo nelle tazze.

Con la tazza in mano si sedette alla finestra e, forse per la prima volta in molti anni, rimase a osservare il cortile che si risvegliava. L’abitudine a essere sempre in allerta, a cogliere ogni rumore, non l’aveva abbandonata, neppure in quell’atmosfera così tranquilla, quasi fiabesca. Svetlana cercò di ricordare quando fosse stata l’ultima volta che aveva potuto semplicemente gustarsi un caffè al mattino, senza fretta, senza pensare ai compiti imminenti.

Amava il suo lavoro di traduttrice in una casa editrice, dove ogni libro apriva nuovi universi. Poi era nato Misha, un anno e mezzo dopo era arrivata Liza e tutto — come in uno schiocco — si era ristretto ai confini di un trilocale, al parco giochi più vicino e al negozio aperto ventiquattr’ore su ventiquattro.

— Te l’eri cercata, — si ricordava nei momenti di esasperazione. — Sognavi una casa più grande, il suono delle risate dei bambini…

Sì, lo aveva sognato. Solo che nei sogni non c’erano isterie nei centri commerciali, notti insonni e quella stanchezza profonda che si sente in ogni fibra delle ossa.

Il telefono vibrò per una notifica in arrivo. Un messaggio di Katja — amica di vecchia data, compagna di studi, migliore amica dei tempi dell’università:
«Vedo che Pavel ha postato delle foto. Siete in vacanza? Dai, incontriamoci! È un secolo che non ci vediamo!»

Svetlana sorrise. Vacanza… Come spiegare che, per la prima volta in quattro anni, poteva davvero rispondere: «Dai»?

L’incontro avvenne nel vecchio caffè accogliente dove un tempo trascorrevano le serate dopo le lezioni. Katja era rimasta la stessa: elegante, trucco impeccabile e uno sguardo sicuro. Svetlana si sistemò la vecchia maglietta, l’unica non macchiata dai piccoli.

— Svet, sembri rinsecchita! E pallidissima. Stai bene? — esclamò Katja gesticolando.

— Solo un po’ stanca. Sono i bambini, capisci? — rispose Svetlana scrollando le spalle.

— Certo… — rise Katja. — Guarda un po’, mi hanno appena promosso: ora dirigo tutto il reparto traduzioni! Forse fa per te? Lavoro remoto, buon compenso, affare serio.

Svetlana quasi trattenne un sospiro. Lavorare con la giornata scandita da giochini e mestoli?.. Ma annuì soltanto:
— Ci darò un’occhiata, ci penso, Katja.

A casa la accolse lo stesso silenzio surreale. Luce soffusa, pulizia, quiete — quasi opprimenti. Sul tavolo c’era il portatile, accanto libri in inglese ordinati da Pavel: “Potrebbero servirti”. Una cartellina con scritto “Traduzioni”. Ultima modifica: un mese prima della nascita di Misha.

Svetlana aprì uno dei volumi. All’inizio le parole si mescolavano, il senso le sfuggiva — sembrava aver dimenticato la lingua. Poi, più leggeva, più tutto tornava chiaro, come se la mente si liberasse restituendo quel flusso familiare.

Si destò solo quando, fuori, il cielo era diventato crepuscolare. Erano le otto di sera! Aveva perso il conto delle ore: intervista, pranzo, cena. Solo allora il telefono squillò: Pavel.

— Allora, come va? Hai mangiato almeno qualcosa? — la sua voce era calda e premurosa.

Svetlana si sentì un po’ a disagio: davvero, si era dimenticata di tutto.

— Va tutto bene. E i bambini?

Dentro di lei qualcosa si strinse: gelosia, rimpianto o forse sollievo? Non riusciva a districare i sentimenti. Tutto si mescolava: gratitudine verso il marito, solitudine pungente e un’imbarazzante punta di invidia. Dunque la famiglia poteva farcela una settimana intera senza di lei?

— Svet, — Pavel fece una pausa, scegliendo le parole, — mia madre… si è offerta di aiutarti sul serio. Può tenere i bambini un paio di volte a settimana, così avrai un po’ di tempo per te.

— E tu che ne pensi? — sbottò Svetlana. Voleva sentire non solo la sua opinione, ma qualcosa di più.

Pavel sospirò, con un lieve nodo in gola:
— Penso che tu… ti stia perdendo. Quella Svetka vivace e appassionata di cui mi ero innamorato si è smarrita. Non per i bambini, ma perché hai smesso di prenderti cura di te.

Dopo quella conversazione, Svetlana rimase a lungo in cucina al buio, sola con i suoi pensieri. Frammenti della vita passata riaffioravano: sicurezze, sogni, progetti che un tempo parevano reali. Si domandava: la vecchia me è sparita per sempre o è soltanto nascosta in fondo, in attesa di essere trovata?

I giorni successivi volarono via. Svetlana lavorò ossessivamente — traduceva senza sosta, come per recuperare gli anni perduti. Si mise in contatto con ex colleghi, si iscrisse in palestra (i muscoli erano andati in vacanza quegli anni), lesse i libri che finora erano rimasti sullo scaffale come semplice ornamento. Ogni giorno sentiva rinascere dentro di sé la Svetka di un tempo — viva, autentica, con uno scintillio negli occhi.

Al quarto giorno squillò di nuovo il telefono:
— Misha chiede quando torni. Dice che le frittelle di nonna non gli piacciono granché.

Il cuore le si strinse: nella mente apparvero il figlio, serio e riflessivo, e Liza con le sue domande infinite.

— Di’ loro che li amo più di ogni cosa al mondo e che mi mancano tanto — disse lei.

— Lo dirò. A proposito, ho inviato la tua prova di traduzione a un redattore. È rimasto colpito! L’offerta di collaborazione è ancora valida — tutto in remoto, come avevamo concordato.

Quella sera, entrando nella cameretta, Svetlana avvertì un vuoto straordinario. Macchinine, pupazzi e disegni alle pareti erano al loro posto, ma il silenzio non era più rassicurante. Sembrava estraneo, quasi doloroso. Svetlana prese il telefono e scrisse a sua suocera:
«Grazie di cuore per aver tenuto i bambini. L’offerta di aiuto è ancora valida? Se sì, accetto volentieri. Ho bisogno di tempo non per riposare… ma per me stessa. Per lavorare. Per vivere.»

La risposta arrivò quasi subito:
«Certo, cara. Sempre. Anch’io ci sono passata — so quanto sia importante non perdersi.»

Due giorni dopo la casa si riempì di nuovo di rumori. Misha irrompe raccontando le novità in garage con il nonno. Liza si appese al collo della madre, cinguettando le avventure con le galline in campagna. Pavel la abbracciò in silenzio.

— Profumi di felicità, — le sussurrò all’orecchio. — È un sacco che non percepivo questa sensazione.

A cena, tra un bicchiere rovesciato e l’odore di crema per bambini, i piccoli litigavano per l’ultima cucchiaiata. E in quel caos Svetlana capì: non aveva smesso di amare la famiglia. Si era solo smarrita in quel fracasso e in quelle risate, in quella gioia chiassosa.

— Mamma, perché sorridi sempre? — chiese Misha con aria sospettosa.

— Perché sono felice di avervi accanto. Tantissimo, — rispose lei. — Con tutti voi.

Più tardi, di notte, quando i bambini dormivano, Svetlana si rimise al computer. C’era una nuova email dall’editore: un testo complesso, niente affatto per bambini. Quel lavoro per cui un tempo avrebbe fatto nottate.

Pavel sbirciò oltre la spalla:
— Stai ancora lavorando?

— Sì, — sorrise lei per la prima volta in lungo e in largo. — Sai, ho scoperto che è possibile essere madre e professionista allo stesso tempo. Per anni ho pensato di dover scegliere. Invece non è così.

— Non devi, — annuì Pavel, baciandole teneramente la nuca. — Bentornata, Svetka, con quel fuoco negli occhi.

Fuori si udivano i rumori della città serale, in cameretta i bambini riposavano serenamente, e sullo schermo, come nuovi orizzonti, attendevano righe di traduzione. Svetlana si sentiva completa, vera, sé stessa. Proprio colei che Pavel aveva amato — la donna che voleva essere.

E in quella settimana di silenzio aveva compreso una cosa essenziale: per donare amore agli altri, bisogna prima riempirsi di amore. Che la vera maternità non sta nel sacrificio totale, ma nell’equilibrio tra famiglia e sé.

Il telefono lampeggiò con un messaggio di Katja:
«Allora, come va il lavoro?»

Svetlana sorrise e digitò:
«Ho già ripreso. I sogni non si spengono se li custodisci dentro. A volte basta spolverarli un po’ — e ricominciare.»

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