«— Sono nati tre gemelli! Lasciali all’orfanotrofio, non voglio vivere così! — mi disse mia moglie in lacrime subito dopo il parto.»

«Sono nate delle terzogenite! È semplicemente incredibile, Ira!»

«Massimo faticava a contenere le emozioni, il suo volto brillava di un tale entusiasmo, come se stesse assistendo a un fenomeno naturale unico» – la sua voce si fece a malapena udibile.

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La stanza d’ospedale, illuminata dal sole di marzo, appariva accecante. Irina era semiseduta sui cuscini, rivolta verso la finestra, dove i rami del pioppo graffiavano il vetro.

Massimo teneva in mano un mazzo di tulipani che iniziavano a appassire tra le sue mani sudate. Tra di loro c’erano tre piccoli fagottini in incubatrici trasparenti.
«Immagina, due figli maschi e una femmina?» – si avvicinò, cercando di incrociare il suo sguardo. «Ho già pensato ai loro nomi, vuoi saperli?»

Lei rimase in silenzio. Le sue dita giacevano molli sulla coperta, con lo smalto delle unghie ormai scrostato.

Massimo si sedette sul bordo del letto, ricordando come, solo nove mesi prima, si aspettasse un solo bambino. Stavano progettando la cameretta, discutendo sulla palette di colori. Poi l’ecografia aveva rivelato due gemelli. E la paura nei suoi occhi.

«Artem, Egor e Masha» – continuò, per riempire il silenzio. «Mashen’ka sarà la principessina di papà, vero?»

Irina finalmente si girò. Negli occhi le brillavano lacrime, ma non quelle che lui si aspettava.

«Non posso vivere così, Massimo» – la sua voce si fece improvvisamente più ferma. «Un figlio è una cosa. Ma tre… È la fine di tutto. Della mia carriera, dei nostri progetti. Di tutto.»

Lui rimase immobile, confuso.

«Che cosa stai dicendo? Sono pur sempre i nostri figli.»

«I tuoi figli. Io non sono pronta per questo.»

Nel corridoio qualcosa sbatacchiò, si udirono passi frettolosi di un’infermiera. Fuori, un ramo di pioppo graffiava il vetro con insistenza, come un avvertimento.

Massimo ricordava quel dialogo come se fosse avvenuto ieri, anche se erano passati molti giorni.

Si trovava nel mezzo del loro appartamento, con Masha in braccio mentre Artem e Egor dormivano nei passeggini. La televisione trasmetteva a tutto volume un talk-show. Nell’aria aleggiava l’odore del latte in polvere e della biancheria sporca.

«Portali all’orfanotrofio, non vivrò in queste condizioni» – Irina lo aveva detto con nonchalance, riempiendo la valigia di bluse e jeans. «Ti avevo proposto di non partorire quando abbiamo scoperto dei gemelli. Hai rifiutato. Ora sono tre, Massimo. Tre!»

Le sue mani riempivano febbrilmente la valigia. Sul muro li osservava il ritratto del loro matrimonio, con i loro volti felici di due anni prima.
«Non puoi farlo» – sussurrò lui, temendo di svegliare Masha, le cui dita minuscole si aggrappavano alla sua maglietta. «Ce la faremo.»

«Non voglio farcela. Volevo vivere. Viaggiare. Fare carriera» – chiuse la valigia. «I figli non erano nei miei piani. E adesso sono tre.»

Massimo la guardò come se la vedesse per la prima volta. Il volto bello che aveva baciato centinaia di volte ora gli pareva estraneo, freddo, quasi ostile.
«Eccoti finalmente per come sei» – pronunciò infine.

«Tu pensavi di conoscermi?» – lei rise amaramente. «Ho sempre detto che non sono fatta per la maternità. Tu non volevi sentire.»

Si avvicinò, si fermò un istante davanti a Masha. Non la baciò. Si limitò a distogliere lo sguardo.
«Scusa» – disse, e Massimo non capì se stesse chiedendo scusa a lui o a se stessa. «Chiederò il divorzio e rinuncerò alla patria potestà. Non cercarmi.»

Il rumore della porta che si chiudeva echeggiò lieve. Fuori scoppiò un temporale. Masha si mise a piangere, seguita da Artem e Egor, come se avessero avvertito di esser rimasti soli con un padre pietrificato dal dolore.
Massimo strinse la piccola al petto, non sapendo come andare avanti, e sentì qualcosa spezzarsi e indurirsi dentro di sé. Le terzogenite avevano appena ventuno giorni.

E non aveva la minima idea di come se la sarebbe cavata da solo.

Con mani tremanti compose un numero che non usava da tempo.
«Papà» – la sua voce si incrinò. «Se n’è andata. Sono solo con tre bambini. Aiutami.»

La risposta arrivò subito, senza alcuna domanda:
«Partiamo subito, insieme a tua madre.»

Il portico scricchiolava sotto i passi di Massimo. Erano le cinque del mattino, il cielo cominciava appena a schiarirsi sull’orizzonte. Tre mesi erano trascorsi da quando il loro SUV parentale li aveva portati via dall’appartamento cittadino. Tre mesi di nuova vita.

«Finalmente sveglio, dormiglione» – rise suo padre, uscendo dalla stalla con un secchio di latte fresco. Il vapore si alzava nell’aria fredda. «La mucca non si munge da sola.»

Massimo annuì, infilando i guanti da lavoro. Mani che prima erano abituate alla tastiera ora si ricoprivano di calli.

La pelle si fece ruvida, le unghie si annerirono di terra. L’ingegnere cittadino era sparito il giorno in cui la porta dell’appartamento con Irina si era chiusa con un tonfo.

«I bambini dormono?» – chiese Pietro, osservando il figlio con orgoglio silenzioso.

«Masha si è svegliata un paio di volte» – rispose Massimo, accarezzandosi la barba incolta. «Li ha cullati mia madre.»

La grande casa in legno, il nido di famiglia ai margini del villaggio, li accolse senza fare domande. Avevano una fattoria di latte, un apiario e un frutteto di meli. I genitori di Massimo, Pietro e Lidia, sembravano attendere solo il ritorno del figlio. Dissero semplicemente: «C’è posto per tutti.»

«Hai parlato con la direttrice dell’asilo?» – Pietro indicò con il forcone il nuovo fienile. «Cresceranno in fretta, bisogna prenotare il posto.»

«È presto» – tagliò corto Massimo, ricordando come la sera precedente Masha gli avesse sorriso per la prima volta consapevolmente, non per riflesso. Il cuore si strinse. «Staranno qui ancora a lungo, sono appena nati.»

Pietro non replicò. Fece solo un cenno e tornò a dare da mangiare alle galline.

Il tempo passò, i piccoli crebbero, la famiglia si rafforzò.

Una sera, con le mani doloranti dalla fatica, Massimo si sedette sul portico, osservando il tramonto. Lidia gli porse un piatto fumante di porridge di miglio e mise accanto delle focacce appena sfornate.
«Mangia, o crollerai» – disse, sedendosi accanto. «I bambini sono già sazi.»

Dall’interno della casa arrivavano risate: le terzogenite adoravano giocare nella grande vasca di legno. Pietro fischiettava, fingendo di essere un piroscafo.

«Papà, penso di vendere il nostro appartamento» – disse all’improvviso Massimo, non distogliendo lo sguardo dal cielo infuocato. «Dobbiamo ampliare la fattoria se vogliamo garantire un futuro a tutti e tre.»

Lidia restò in silenzio, accarezzandogli il capo ispido, come faceva da bambino.
«Lei non tornerà, figliolo» – disse infine. «Ho visto donne così. Una volta che rinunciano, non tornano mai.»

«Non lo aspetto» – rispose lui con fermezza. «A volte devo persino ringraziarla. Meglio così che far soffrire i bambini con il suo distacco per anni.»

Dal microonde in cucina si udirono dei beep: scaldava il biberon per Artem, che si svegliava sempre per primo durante la notte.

Massimo si alzò stancamente. Dalla veranda si dominavano i campi spogli, il bosco nerissimo all’orizzonte. Il suo nuovo mondo: duro, esigente, ma autentico.

E i tre piccoli che lo chiamavano papà.

«Mashen’ka, nientepopodimeno che non dar da mangiare a Vasilij con il porridge di semolino!» – esclamò Massimo, afferrando la sua bambina di quattro anni, pronta a rovesciare il piatto sul gatto rossiccio. «Artem, asciugati la bocca. Egor, dove sono i tuoi stivali?»

La cucina era diventata un vero campo di battaglia. I tre bambini, ciascuno con il suo carattere, cercavano di scappare in direzioni diverse. Il peggio era che avevano imparato a coprirsi a vicenda.

«Tesoro, papà deve andare al mercato» – disse Lidia, intrecciando con maestria le trecce di Masha. «Nonno ti aspetta in cortile.»

Il camion da tre tonnellate, carico fino all’orlo di mele e miele, era parcheggiato davanti al cancello.

In tre anni la fattoria di Massimo era diventata un’azienda fiorente: forniture di latte al caseificio, espansione dell’apiario, nuovi appezzamenti di terreno. Tutto per le terzogenite, per il loro futuro. Massimo si mise la vecchia giacca di pelle, consumata sui gomiti, ed uscì in cortile. Era ora di partire per il mercato.

«Papà, compra un libro!» – gridò Masha dalla soglia. «Sulle principesse!»

«E una macchinina!» – urlò Artem, il più vivace dei tre.

«E una caramella!» – aggiunse Egor, il più timido, che non chiedeva mai molto.

Massimo sorrise e salutò con la mano. Il suo mondo si era ristretto a quel cortile e a quei bambini. Tutto il resto non esisteva più.

Il mercato brulicava di gente. Il camion si svuotò rapidamente: i prodotti della fattoria Kravcov venivano apprezzati per la loro qualità. Massimo contava i guadagni quando la vide. Una giovane donna, bassa, con una treccia castana che le arrivava alla vita, sfogliava un libro in uno stand vicino. Il suo volto – aperto, con tratti marcati – non era convenzionalmente bello.

Ma qualcosa in lei era attraente, caldo. Alzò gli occhi e gli sorrise.

«Scusi, è suo questo miele?» – chiese indicando l’ultima barattolo. «Dicono sia il migliore.»

«Sì, è nostro» – balbettò Massimo, come un adolescente. «Proviene dal tiglio.»

«Sono la nuova bibliotecaria scolastica» – allungò la mano. «Mi chiamo Olga.»

La sua mano era ruvida, con macchie d’inchiostro tra le dita.

Col passare del tempo, Massimo strinse di nuovo quella mano, stando sulla soglia della loro casa. Olga sorrideva, porgendo a Masha un libro di fiabe.

«Avevi promesso di insegnarmi a fare i cubi di carta» – ricordò seriamente Masha. «Origami, giusto?»

«Certo» – Olga si inginocchiò per mettersi all’altezza della bambina. «Ho portato tutto il necessario.»

In aria si sentiva l’odore dei cheburek – Lidia li aveva preparati per l’arrivo dell’ospite. Fuori volteggiavano i primi fiocchi di neve.

E Massimo sentì per la prima volta da molto tempo che qualcosa di nuovo, fragile e inaspettato stava nascendo nel suo cuore. Un sentimento talmente incredibile da sembrare impossibile dopo tutto ciò che avevano passato.
«Esprimete un desiderio!» – esclamò Massimo portando una enorme torta con sette candeline. La fiamma tremolò, riflettendosi negli occhi dei bambini.

Otto anni erano volati come un battito. Le terzogenite stavano per terminare la prima classe nella scuola del villaggio. Egor si era appassionato agli scacchi, Artem costruiva modelli complessi con i mattoncini, e Masha scriveva storie che Olga custodiva con cura in una cartellina.

La cucina era piena di ospiti: nonno e nonna, alcuni bambini del vicinato, l’insegnante della scuola. Olga stava a destra di Massimo, asciugandosi furtivamente gli occhiali appannati. Anche i suoi occhi luccicavano.
«Uno, due, tre!» – ordinò Massimo, e le guance dei piccoli si gonfiarono.

Le candeline si spensero tutte insieme. La stanza esplose in un applauso.

«Adesso i regali!» – annunciò Pietro, tirando fuori da dietro la schiena tre scatole. «Un compasso per ognuno, così troverete sempre la via di casa.»

Masha però depose il suo compasso e guardò Massimo negli occhi. Alla luce delle lucine festive il suo volto sembrava più maturo – non più quello di una bambina.
«Papà, la nostra mamma vera tornerà mai da noi?»

La stanza si fece silenziosa. Si sentiva il ticchettio dell’orologio da parete, portato dal bisnonno di Massimo. Lidia fece un passo avanti, ma Massimo la fermò con lo sguardo.

«No, tesoro, non tornerà» – disse con voce ferma, guardando negli occhi la figlia. «A volte gli adulti fanno scelte che non possono cambiare. Ma voi avete me. E…»

Si interruppe, lanciando uno sguardo discreto a Olga. Non ne avevano mai parlato, ma in quegli anni lei era diventata parte della loro vita. Passava le sere con loro, aiutava con i compiti e leggeva fiabe. Una volta era rimasta a dormire quando era scoppiata una bufera, e non se n’era più andata – prima nella stanza degli invitati, poi…

«E avete anche la mamma Olga» – finì per lui Egor, avvicinandosi a Olga e prendendole la mano. «Ci legge sempre le storie.»

Olga trasalì. Le lacrime le scesero sulle guance.

«Volevo solo essere d’aiuto» – sussurrò. «Non ho mai pensato di sostituirmi a nessuno…»

«Mamma, non piangere» – disse all’improvviso Artem, abbracciandole le gambe. «Tu stessa hai detto che piangere non è una vergogna.»

«Mamma». Una parola semplice, che nessuno gli aveva insegnato a pronunciare. Era nata da sé – naturale, come il respiro. Massimo guardava la sua nuova famiglia, creata non dal sangue ma dalla scelta, dall’amore, dal lavoro quotidiano.

Guardò i bambini stringersi alla donna che non li aveva portati in grembo ma aveva donato loro tutto il suo cuore. Vide negli occhi di Olga la speranza di una conferma – avesse fatto la scelta giusta nell’accoglierli.

«Hai visto, Artem si prepara un discorso. Finalmente si dà una mossa» – disse Pietro aggiustandosi la cravatta d’altri tempi, socchiudendo gli occhi verso il palco dove i diplomandi erano schierati per l’ultimo saluto.

Dieci anni erano passati in un batter d’occhio. Le terzogenite si laureavano con lode. Artem avrebbe studiato ingegneria, proprio come suo padre. Egor sognava la conservazione, grazie al suo orecchio assoluto. Masha voleva diventare medico, il suo talento per prendersi cura degli altri era emerso già da piccola. Il cortile della scuola era gremito di gente. Famiglie, insegnanti, studenti delle classi inferiori – tutti erano venuti alla cerimonia di fine percorso.

Massimo era seduto in prima fila, stringendo la mano di Olga. La sua treccia castana si era trasformata in un elegante carré, con qualche filo argentato sulle tempie.

«Voglio ringraziare una persona che non si è mai arresa» – la voce di Artem risuonò nell’aria. «Che ci ha insegnato cosa significa essere davvero un papà, un vero uomo.»

Guardava Massimo con lo sguardo dei suoi anni da ragazzo calloso, le mani forti che tremavano per l’emozione.

«Quando abbiamo scoperto la verità, perché la nostra madre biologica ci aveva abbandonati, avremmo potuto odiare il mondo intero.»

«Ma tu ci hai mostrato che l’amore è più forte, papà. Grazie per ogni notte insonne. Per ogni graffio medicato. Per averci insegnato a non abbandonare mai chi ti sta accanto.»

Masha lo interruppe:

«Grazie anche a mamma Olga, che ci ha scelti. Che è diventata nostra madre non per dovere ma per amore. Che ci ha mostrato che la famiglia non è solo dove nasci, ma quella che scegli.»

Egor, sempre silenzioso, disse semplicemente:

«Vi vogliamo bene. Siamo orgogliosi di essere i vostri figli.»

Olga pianse senza vergogna. Massimo guardò i suoi figli adulti, i loro volti determinati e sinceri.

Ripensò a quel giorno in ospedale – la paura, la disperazione, lo smarrimento. Quel giorno in cui aveva sentito il terribile: «Portali all’orfanotrofio.» Quel giorno che avrebbe potuto distruggerlo, ma invece lo aveva reso più forte.

Si alzò, combattendo il tremito alle ginocchia, e andò ad abbracciare i suoi figli. Quelle terzogenite che erano diventate la sua salvezza, il suo orgoglio, la sua vita. Alle loro spalle rimanevano anni di duro lavoro, dubbi, piccole vittorie e grandi gioie. Davanti a loro si dispiegava la vita adulta – università, professioni, famiglie proprie.

Ma i fili invisibili che li avevano uniti in quel giorno fatale erano più forti di qualsiasi sangue. Era una vera famiglia – creata non da un caso di nascita, ma dalla forza di una scelta e dalla lealtà a quella scelta.

«Bravi» – sussurrò Massimo, abbracciandoli stretti tutti e tre. «Vi amo più di quanto possano dirlo le parole.»

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