Gleb ha preso con sé una bambina rimasta senza genitori, senza neppure immaginare quale ruolo avrebbe avuto nella vita della sua famiglia.

Sotto la pioggia torrenziale, come a lavare dalla faccia della terra non solo il fango, ma anche il dolore, Gleb correva in rianimazione dalla figlia. In una mano stringeva un flacone di un farmaco raro, ottenuto grazie a vecchi contatti. Nell’altra — la mano sottile e fredda di una bambina di circa nove anni, che aveva trovato in una discarica cittadina. Era impaurita, infreddolita, con lo sguardo vuoto, senza più tracce d’infanzia. Perché l’avesse portata con sé non lo sapeva nemmeno lui; il cuore gli aveva dettato semplicemente: non potevi lasciarla lì.

— Siediti qui — le disse, fermandosi sulla soglia della stanza. — Tornerò subito.

Advertisements

La bambina annuì in silenzio. Tra il vetro vide i medici chinarsi sul corpicino esile e pallido sul letto. Poi il suo sguardo cadde sul flacone che Gleb aveva appoggiato su una sedia. Lo prese con cautela e rigirò l’etichetta, poi si fermò.

Era svedese. Lo sapeva. Un tempo, prima della guerra, prima dell’orfanotrofio, prima di tutte quelle perdite, sua madre insegnava svedese. Marta studiava insieme a lei, ripetendo le parole come un gioco. Poi… la madre era scomparsa. Anche il padre. L’avevano abbandonata alla stazione. E ora lei era diventata semplicemente «la bambina della discarica».

Ma la memoria non l’aveva tradita.

Leggeva lentamente, mormorando:

— «Controindicato nell’insufficienza cardiaca. Possibili convulsioni. Non raccomandato per bambini sotto i 12 anni…»

Quando Gleb tornò, la trovò ancora con il flacone in mano. Il viso le era bianco, le labbra tremavano:

— Questo… non si può dare! Potrebbe uccidere tua figlia!

Gleb si fermò.

— Cosa hai detto? Hai… letto tutto?

— Sì. È in svedese. E a vostra figlia mancano ancora tre anni ai dodici?

Un medico di passaggio le strappò il flacone dalle mani, ne lesse rapidamente l’etichetta e poi guardò Gleb:

— Avevate ragione. Per poco non la perdevamo. Grazie a te, bambina.

Gleb crollò sul pavimento del corridoio. Il cuore gli martellava nel petto come un maglio. Davanti ai suoi occhi — solo quello sguardo. Non infantile. Non indifeso. Troppo profondo. Come se in esso fosse racchiusa un’intera vita.

Tre mesi dopo. Sua figlia stava migliorando. E la bambina della discarica — ora viveva in casa loro.

Si chiamava Marta. E non aveva salvato solo una vita.

Aveva salvato anche Gleb — schiacciato dal dolore, esausto dalla solitudine, pietrificato dentro.

Quando a scuola assegnarono il tema «Chi è il tuo eroe?», sua figlia scrisse:

«La mia eroina è mia sorella Marta. Ci ha trovati là dove avevamo già perso ogni speranza, e ci ha riportati alla luce».

Proseguiva: «Ha semplicemente letto le istruzioni in svedese…»

I primi giorni a casa Marta trascorse quasi in silenzio. Gleb le aveva preparato una stanza piccola, ma accogliente. Aveva comprato una carta da parati con fiori gialli e appeso le tende che un tempo aveva scelto la sua defunta moglie. Voleva che lei si sentisse al sicuro. E lei passava le ore seduta alla finestra, a guardare lontano. Immobile. Silenziosa.

Ogni tanto sentiva un bisbiglio in una lingua che non conosceva, mentre Marta fissava le nuvole.

— Mamma… jag minns dig… jag saknar dig…

— Ti manca tua madre? — chiese lui a bassa voce.

Marta trasalì. Nei suoi occhi lampeggiò la paura. Poi annuì.

— Parli svedese?

— Mia madre insegnava. Ho dimenticato molto… ma la sua voce… quella la ricordo.

Gleb si inginocchiò davanti a lei:

— Non posso essere tua madre. Ma posso prometterti che non ti lascerò più. Te lo prometto.

Lei non rispose. Ma per la prima volta da quando era arrivata, accennò un sorriso. Quasi impercettibile.

Una settimana dopo Gleb presentò i documenti per ottenerne la tutela. Gli amici scuotevano la testa:

— Sei impazzito? Una bambina di strada, senza documenti, senza passato. E se fosse pericolosa?

Ma lui non ascoltava. Quella notte, mentre stringeva la mano di sua figlia e chiedeva un ultimo segno a Dio, qualcosa in lui si era rotto e poi riformato. Marta non era un caso. Era un segno. Un dono. Forse un debito che lui non sapeva di dover saldare.

All’orfanotrofio li avevano guardati con sospetto:

— Non ha alcun documento ufficiale. Nessun registro, nessun certificato.

— Ha un nome. Un cuore. Una memoria. Cercherò dove ha vissuto. Farò tutto il necessario.

E così iniziò la sua ricerca.

Una sera Marta chiese una vecchia scatola di carte. Ritagliava lettere dalle riviste, incollava i fogli e scriveva qualcosa.

— Che cos’è? — chiese Gleb.

— Lettere — rispose lei piano.

— A chi?

— A mia madre. Non so dove sia. Ma forse mi sentirà. O forse la mia voce le arriverà comunque.

Lui la strinse a sé — dolcemente, come faceva tanti anni prima, quando la sua stessa figlia tremava per i tuoni e si svegliava nel cuore della notte.

Advertisements

Leave a Comment