Il messaggio è arrivato proprio nel momento in cui Emma si era seduta sulla sua panchina preferita nel piccolo giardino cittadino. Volse lo sguardo al display del telefono e subito aggrottò la fronte.
«Quello no! Cosa vuole? Quel vecchio tirchio che ancora pensa di avere il diritto di scrivermi?»
Guardò intorno al parco. C’erano poche persone: due innamorati passeggiavano tenendosi per mano e, vicino allo stagno, un uomo – sembrava un senzatetto – spezzettava pane per le anatre. «Strano», pensò Emma, «a stento tira avanti, eppure spende le ultime briciole per gli uccelli».
Con un sospiro pesante si appoggiò allo schienale della panchina.
Non aveva alcuna voglia di aprire quel messaggio. Dall’ex marito non si aspettava più nulla di buono: il divorzio si era concluso solo tre mesi prima, e solo ora i suoi nervi avevano cominciato a calmarsi un po’. Era stata lei a chiedere la fine del matrimonio – vivere com’erano non era più possibile.
All’inizio sembrava tutto normale, come per tutti. Poi Viktor… era impazzito per l’avidità. All’inizio Emma rideva delle sue stranezze, pensava fosse solo parsimonia. Poi non c’era più nulla da ridere.
Avevano soldi a sufficienza e potevano permettersi molte cose. Ma Viktor le vietava perfino di comprare un paio di collant nuovi. «A cosa servono? Cuci quelli vecchi e tienili un po’», diceva. E quando chiedeva perché non poteva prendere qualcosa di buono da mangiare, lui rispondeva: «Vestiti di più e cammina».
All’inizio sembrava una sua particolarità. Poi Emma capì che non c’era nulla di speciale: Viktor controllava completamente il budget familiare, e lei, senza accorgersene, gli consegnava tutto lo stipendio, tenendosi solo qualche moneta.
Poi arrivarono i prodotti a basso costo, poi scaduti. Emma non ce la fece:
«Viktor, spiegami cosa succede. Entrambi lavoriamo, abbiamo soldi! Perché dobbiamo mangiare come barboni?»
«Non esagerare!» sbottò lui. «Dopo la scadenza, si può mangiare per qualche giorno ancora. Non è spazzatura!»
Per quanto discutessero, lui restava della sua idea.
Finché un giorno Emma decise: non gli avrei più dato il mio stipendio. Avrei comprato cibo decente, magari qualcosa di nuovo. Viktor fece uno scandalo tale che i vicini chiamarono la polizia: urlava, la insultava, la dava della sporca…
Emma restava in silenzio. Non riusciva più a capire dov’era finito l’uomo di cui si era innamorata. E allora, in un lampo, capì: doveva andarsene, subito.
Ma esitava, temeva di perdere la casa che amava e la sua vita abitudinaria. Dentro, però, non c’era ormai che dolore.
Poi l’incontro casuale: vede Viktor in un bar con una ragazzina. Davanti a loro piatti invitanti, nessuna traccia di formaggio scadente o salumi rancidi.
Quello fu il colmo. Il punto di non ritorno.
Ancora una volta lui urlava, schiumava rabbia, la insultava: «Senza di me morirai da sola, nessuno ti vorrà. Nessuno ti amerà come me, mostro!»
«Guardati!» ringhiò. «A chi servi? Solo a me! Non troverai un altro uomo! Rimarrai sola!»
Improvvisamente Emma sorrise. A se stessa. Inaspettatamente.
«Sai, Viktor», disse a bassa voce, «ora capisco perché sei stato accanto a me. Non mi hai amato. Mi hai solo usata, come un oggetto comodo per la tua vita.»
«Non sono avaro! Sono solo economo!» protestò lui.
«Certo», annuì Emma. «Soprattutto in quel ristorante. E la tua nuova fiamma sa che sei capace di litigare per una miseria?»
Viktor s’inalò di rabbia. Il volto paonazzo, gli occhi iniettati di sangue. Riuscì a sibilare solo: «Vedremo chi sarà felice… e chi resterà solo per sempre…»
Emma inspirò a fondo, poi finalmente aprì il messaggio. Lesse e rilesse. Lo stesso tono sprezzante e altezzoso. Lui la invitava a un matrimonio, suggerendo che forse qualcuno tra gli ospiti l’avrebbe notata. «Tanto tu non troverai mai una nuova felicità», implicava.
La rabbia le salì alla gola, le lacrime agli occhi. «Aspetta, Viktor. Non ti deluderò.»
Lo sguardo scivolò di nuovo sull’uomo vicino allo stagno. Alto, spalle larghe, quarantenne. Non un vecchio. Curato. E se…
Aveva appena preso lo stipendio e la gratifica: soldi abbastanza. E quell’uomo sembrava averne bisogno. Risoluta, si alzò e si avviò verso di lui.
«Buongiorno.»
Lui la guardò stupito e poi annuì: «Buongiorno…»
«Ho una proposta di lavoro. Ha bisogno di soldi?»
L’uomo sollevò un sopracciglio, diffidente: «Spero non sia niente di illegale.»
«Quasi», sorrise Emma. «Ma non fisicamente. Moralmente, sì.»
Il clochard si chiamava Gennadij. Ridacchiò, perfino scoppiò a piangere dal ridere: «Mi spaventi! Allora cosa devo fare?»
Emma fu sorpresa dai suoi denti bianchi e perfetti: non l’avrebbe detto un ramo secco al primo sguardo. «Sediamoci», propose. «Le racconto tutto.»
Si rimise sulla panchina, un po’ esitante, ma riassunse la sua storia: matrimonio, divorzio, il dì della ricevuta del messaggio. Gli porse il telefono: Gennadij lesse l’SMS e sorrise beffardo.
«Forse dovresti ignorarlo», suggerì, guardando l’acqua dello stagno. «Lascia che creda di avere ragione.»
«Non voglio trovare un altro uomo!» agitò la mano. «Ora sto benissimo da sola. Dopo tutto ciò… mai più matrimonio!»
Fece una pausa, poi aggiunse: «Ma lì sono tutti parenti di Viktor. Pensano che io sia una fallita. Vorrei dimostrare loro che sbagliano.»
«Cioè vuole che capisca: non sono sola?» chiese Gennadij.
«Sì! Così smetterà di tormentarmi. Se vedrà che non vengo da sola, forse mi lascerà in pace.»
Gennadij annuì pensieroso. «Va bene, la aiuto. Ma i vestiti… non ho nulla di adatto. Un frac non ce l’ho, di certo.»
«Non si preoccupi», rispose sicura Emma. «Ho stipendio e gratifica: compriamo tutto il necessario. Anche un frac in affitto.»
Rifletté un istante: come si sarebbero ritrovati? Lui senza telefono, lei senza contatti. Avrebbe dovuto alloggiare da lei quei due giorni?
«Sa, forse potrebbe stare da me per non perdersi», propose incerta.
Gennadij sorrise, leggero e un po’ beffardo. «Meglio se vengo io. Mi dia l’indirizzo e troverò la strada.»
Emma annotò l’indirizzo su un bigliettino, glielo porse e se ne andò di fretta. Pensò di aver fatto una follia, credendo che sarebbe venuto davvero.
La sera, come sempre, cenò, fece la doccia e si sistemò nella poltrona con una coperta e un film. Sapeva che la vicina poteva suonare da un momento all’altro. Quando sentì il campanello, aprì con il solito sorriso: «Cosa manca stavolta, Katia?»
Il sorriso sparì quando alla porta trovò Gena. Pulito, ordinato, irriconoscibile rispetto all’uomo del parco.
«Oh! Scusi, non la aspettavo!» esclamò incredula.
«E invece eccomi», disse lui sollevando un sopracciglio.
Emma lo fece entrare e chiuse la porta: «Credevo non sareste venuto. Pensavo avesse ragione il mio ex: spavento tutti.»
«Allora scusa per averti fatto pensare questo», rispose lui piano.
«Vuole tè o caffè?» chiese Emma, imbarazzata mentre giocherellava con il bordo del vestaglia.
«Con piacere», le sorrise Gena.
Col tè cominciarono a parlare davvero. Emma chiese come fosse finito per strada: lui la guardò con un sorriso triste e chiese di non parlarne ancora.
«Certo», assentì Emma. «Scusa, sono stata maleducata.»
Le offrì la sua vecchia brandina, ma lui rifiutò con fermezza: «Non sarebbe da uomo. Dormirò dove posso.»
Un calore le riscaldò il cuore: da tempo nessuno le prestava così tanta attenzione.
Il giorno dopo andarono a fare compere. Emma rise fino alle lacrime, come da bambina. Persino entrarono in un café, nonostante Gena fosse reticente.
Il proprietario li notò e si avvicinò, poi vedendo Gena esitò e si allontanò.
«Avrei voluto dirgli quattro cose!» sbottò Emma. «Perché chi paga non può sedersi? Lui si comporta in modo gentile!»
«Ti ha riconosciuto», spiegò Gena.
«E allora?» balbettò Emma.
«Per questo se n’è andato.»
Emma lo guardò intensamente: «E se fosse rimasto, cosa gli avresti detto?»
«Forse…», rispose Gena con un sorriso misterioso.
Fecero presto gli acquisti. Gena stava benissimo in ogni capo, come se fosse fatto su misura. Emma si chiedeva: «Com’è possibile che una persona sia così bella?»
Alla vigilia delle nozze, Emma era nervosa: mani tremanti, farfalle nello stomaco. «Perché ho accettato?» pensava.
«Emma, ascolta», disse Gena vedendo il suo disagio. «Devi chiudere questo capitolo. Per farlo, vai a quel matrimonio, mostra a tutti chi sei: brilla più degli sposi.»
«Davvero?» chiese incerta.
«Sì. Dopo oggi potrai cancellare il numero di Viktor e dimenticarlo per sempre.»
Arrivarono al ristorante in taxi. Le strade erano deserte. Emma, goffa sui tacchi, si aggrappò alla mano di Gena: ogni passo diventò più sicuro.
Salirono i gradini larghi e, per un attimo, Emma si sentì di nuovo protagonista di feste di un tempo.
Nell’ampio atrio si fermò: Viktor non aveva badato a spese, il locale era lussuoso. Dal salone giungevano musica, risate, conversazioni ovattate. Molti ospiti già affollavano l’interno.
Gena la incoraggiò con uno sguardo pieno di fiducia.
«Andiamo?» chiese lui.
«Andiamo», rispose Emma, sentendo un nodo di ansia allentarsi.
Lui le strinse la mano, trasmettendole forza e calma.
«Ricorda: sei qui per splendere. Goditi la serata, non pensare al perché ti hanno invitata. Meriti tutto questo.»
«Grazie… per tutto», mormorò Emma.
«Per me?», rise lui alzando un sopracciglio. «Non dica “lei”. Siamo… una coppia, no?»
Il suo sorriso era così sincero, così abbagliante, che il cuore di Emma sussultò.
Quando entrarono nella sala, calò un silenzio tombale. Tutti gli sguardi si posarono su di loro. Viktor, vedendoli, rimase a bocca aperta, pietrificato dallo stupore.
«Gennadij Aleksandrovič!» balbettò infine, con la voce tremante di deferenza. «Che onore inaspettato!»
Emma non capiva. Solo ora realizzò: quel nome apparteneva al vero grande capo dell’impero dove Viktor lavorava. Al proprietario di un’intera compagnia.
«La smetta, Viktor Olegovič», intervenne Gena con dolce fermezza. «Accompagno questa gentile signora, che mi ha invitato con cortesia.»
Emma rimase accanto a lui, sobbalzando nel rendersi conto della verità: non era un senzatetto, ma il padrone di tutto.
«Prego, accomodatevi!» balbettò Viktor quasi inciampando. «Champagne, antipasti, tutto ciò che desiderate! Fate come a casa.»
Detto questo, corse via verso la sposa, iniziando a discutere animatamente con lei.
«Gena…», sussurrò Emma incredula.
«Andiamo fuori un attimo», le propose lui, prendendo due flute da un cameriere disorientato. «Basta un momento di aria fresca.»
Sulla terrazza la brezza serale schiarì le idee.
«Ho riflettuto a lungo su come iniziare», disse Gena guardando lontano. «Volevo capire davvero la vita dei senzatetto, vivere tra loro qualche giorno. Per vedere cosa serve realmente e aiutare. Ho risorse: posso aprire rifugi, offrire lavoro… Ma volevo vedere con i miei occhi. Poi sei arrivata tu – così bella, così autentica – e mi hai chiesto… un clochard. Ti rendi conto?»
Emma lo fissava, sbalordita.
«Quindi… lei è davvero il Gennadij Aleksandrovič?» chiese.
«Proprio io», rispose lui con un sorriso malizioso. «E adesso?»
Emma sorrise, sentendosi di nuovo leggera: «Festeggiare, divertirsi e godersi la vita.»
«Consentirebbe un ballo?» allungò la mano.
Il valzer lento li avvolse. Il mondo sembrò svanire intorno a loro. Il suo sussurro, caldo e leggermente rauco, arrivò all’orecchio di Emma:
«Sai, ora vorrei essere un po’ crudo: ho voglia di afferrarti e portarti via con me, subito. Per sempre.»
Emma scoppiò a ridere, felice e libera: «Mi spaventi… ma potrei andarci da sola, se prometti di non rapirmi.»
Lui la guardò sorpreso: «Sul serio?»
«Assolutamente», rispose lei.
La prese per mano, ferma ma gentile, e la guidò fuori. Nessuno riusciva a staccare gli occhi da loro: non erano lì per osservare, ma per cambiare tutto.
Emma camminava accanto a lui sapendo una cosa: tutto il male era alle spalle. Al suo fianco c’era chi non solo l’aveva aiutata, ma le aveva donato una nuova vita, la più vera e luminosa.