Sei arrivata nella mia vita in modo così inaspettato… Ti hanno lasciata come una bambina indesiderata. E io, che non avevo mai avuto figli, ho deciso di diventare tua madre. L’ho confessato a mia figlia il giorno del suo diciottesimo compleanno.

«Che cos’è?» mormorò Maria, immobile sulla soglia di casa.

Ai suoi piedi giaceva un piccolo fagotto. Una bambina minuscola, fasciata in un vecchio scialle dal motivo sbiadito, vestita con una tutina di un azzurro brillante, guance rosate e sguardo terrorizzato, muta, con gli occhi spalancati e colmi di lacrime.

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Maria gettò uno sguardo intorno a sé. Là fuori, l’alba di ottobre avvolgeva il paesaggio in una diffusa malinconia grigia. Il villaggio di Verkhniye Kluchi dormiva ancora; di tanto in tanto, solo un filo di fumo si alzava dai comignoli. Nessuna anima viva, nessuna orma, nessun indizio sull’identità di chi avesse abbandonato la bimba.

«Ma chi ti ha…» cominciò, poi si interruppe e si accovacciò accanto alla creatura.

La piccola tese verso di lei le manine paffute. Avrà avuto un anno, forse poco più, era pulita, sazia, ma tremava di paura. Nessuna parola, nessun biglietto, solo il silenzio e l’aria frizzante del mattino.

«Papà!» chiamò Maria, stringendo la bimba a sé. «Papà, svegliati in fretta!»

Ivan apparve sullo stipite, gli occhi ancora assonnati. Con la schiena curva, indossava una vecchia maglietta logora, e il suo volto, segnato da anni di duro lavoro e privazioni, si fece subito serio nel vedere Maria con la piccola tra le braccia.

«L’hanno lasciata lì», sussurrò Maria. «Ho aperto la porta… ed ecco che c’era. Niente persone, nessuna traccia, nessun suono…»

Ivan sfiorò la guancia del neonato: la ruvidezza della sua mano accarezzò la dolcezza infantile, e nei suoi occhi brillò un’espressione allo stesso tempo tenera e mesta.

«Hai un’idea…?» chiese Ivan.

«Quale idea?» rispose Maria con voce tremante. «Dobbiamo andare al municipio. Non è affare nostro, non ce la faremo.»

«E se non ritrovassimo i suoi familiari?» si preoccupò Ivan, ancora assorto nello sguardo della bimba. «La manderanno all’orfanotrofio?»

La piccola allora afferrò con decisione il dito di Maria, come se avesse già scelto la sua madre. Un brivido percorse Maria: non di pietà, ma di timore per quella nuova, irrevocabile responsabilità.

«Io non posso, papà…» sussurrò Maria. «Ho la fattoria, il lavoro, mi sto appena riprendendo… da quando c’è stato Kostik…»

Tre mesi prima, il suo divorzio era diventato definitivo. L’ex marito l’aveva lasciata senza voltarsi indietro, con un freddo: «La campagna mi annoia». Maria era tornata a casa del padre, valigia in mano e cuore spezzato.

«La bambina non c’entra nulla», disse Ivan aggiustandole lo scialle sulle spalle. «Forse è un segno del destino.»

«Un segno del destino?» sogghiornò lei. «Non ricominciare con le tue previsioni.»

Eppure non allentò la stretta attorno a lei. La bimba restò silenziosa, come se comprendesse che in quel momento si decideva il suo futuro.

In cucina il latte stava per bollire. Ivan poggiò la vecchia giara sul fornello, mentre Maria, seduta, contemplava quella nuova vita emersa dal nulla. La fuliggine sul soffitto, lo scoppiettio della legna nel camino, le foglie umide oltre la finestra: il mondo fuori non era cambiato, ma tutto era mutato dentro.

«La porterò in municipio», dichiarò Maria con voce risoluta. «Dopo colazione.»

Ma quando la colazione fu finita, toccò cambiare il pannolino, nutrire la bimba, poi Ivan salì in soffitta a prendere una culla. Finito il lavoro, la mattinata era già inoltrata.

Al municipio, i funzionari alzarono le spalle:

«Nessuna segnalazione di scomparsa di bambini. E nessuna giovane madre, a quanto sembra.»

Il vigile di zona prese distrattamente appunti:

«Lasciatela qui per ora. Aspettate un giorno o due.»

Verso sera, la voce si sparse più veloce del vento. Le vicine accorsero, curiose.

«Vi hanno scaricato un bebè trovato!» esclamò la signora Stepanovna, sbirciando nella culla. «Di che sangue sarà?»

«Tu che non hai mai potuto avere figli, eccoti un bambino addosso!» disse un’altra guardando Maria con malizia.

Maria, silenziosa, stava tritando cipolle. Il colpo del coltello risuonò con un’eco innaturale.

«Andatevene», tuonò improvvisamente Ivan, con voce carica di rabbia: «qui non è festa.»

Quando tornò il silenzio, Maria scoppiò a piangere senza emettere un suono, asciugandosi le guance col dorso della mano:

«Avete già deciso per me, eh?» sbottò rivolta al villaggio intero.

«Io non decido niente», rispose Ivan tirando fuori dalla tasca un piccolo cavallino di legno. «Pensavo solo che forse… se fosse cresciuta qui, sarebbe stata felice.»

La bimba dormiva, placida, sola al mondo, come se nulla esistesse oltre quella casa.

Con il passare dei giorni, il vigile non tornò. Né l’indomani, né due giorni dopo. Al terzo giorno Maria smise di sperare in un intervento ufficiale.

Comprò in paese un ciuccio, vestitini per neonati, shampoo. I pettegolezzi delle vicine le scivolarono addosso senza raggiungerla.

Una sera, mentre faceva il bagnetto alla piccola, Maria mormorò:

«Ti chiamerai Masha. Come me. Dato che è andata così.»

Quel nome le uscì naturale, come se l’avesse sempre accompagnata. Ivan annuì, come se quel momento lo stesse aspettando.

Passarono due anni. L’inverno lasciò il posto alla primavera; l’erba spuntò dalla terra come una promessa. Masha correva in cortile, ridendo mentre inseguiva il gatto, aggrappandosi all’orlo della gonna di sua madre, imparando a parlare, a impilare cubi e a ripetere parole.

Un giorno, in piedi sul portico, Maria teneva tra le mani lo stesso scialle in cui aveva trovato la bambina. Ormai lavato, stirato, senza traccia di paura né di freddo, non era più altro che un semplice lembo di stoffa.

Lo piegò con cura e lo ripose nel cassettone. Non serviva più. Masha aveva un nome, una casa e un futuro più solido di qualunque legame di sangue.

Qualche mese dopo, Masha, in uniforme scolastica, strinse la cartella al petto e chiese, con voce tremante:

«Mamma, è vero che non sono tua figlia?»

Maria si immobilizzò, un mestolo di legno in mano: la zuppa sobbolliva nella pentola, tracimando a volte in schizzi bollenti. Erano passati nove anni, e quella domanda la colpì come un fulmine.

«Chi te l’ha detto?» rispose, con voce diventata ferma.

«Sasha Vetkine. Dice che sono stata trovata,» singhiozzò Masha. «Che mi hanno abbandonata perché sono cattiva.»

Maria ripose lentamente il mestolo; i suoi occhi si velarono di rabbia. Strinse i denti per non dire parole troppo dure.

«Tu non sei cattiva,» sussurrò infine con tono più dolce. «Io sono la tua vera mamma. Solo…»

«Solo cosa?» la interruppe Masha.

«Non ho le tue prime foto,» riprese Maria esitante. «Con gli altri bambini ci sono sempre foto di quando erano neonati. Con te… niente.»

Ivan tossì in un angolo; il suo viso segnato dalla malattia, ma rimase in silenzio, sostegno discreto.

«È perché non avevamo una macchina fotografica,» spiegò lui. «Tutti i soldi andavano alle mie medicine.»

Masha guardò i suoi genitori adottivi; nei suoi occhi comparve un misto di dolore e comprensione.

«Non ho fatto il mio dovere,» mormorò. «Avrei dovuto portare le foto di famiglia.»

«Ti aiuterò,» promise Maria asciugandosi le mani sul grembiule. «Racconteremo tutto, onestamente, anche senza foto.»

Quella sera, alla luce di una lampada a petrolio in una casa immersa nell’oscurità, Masha disegnò due sagome che si tenevano per mano. Sopra, un sole sorridente. Non era un disegno perfetto, ma rappresentava una famiglia.

Quella sera, alla luce di una lampada a petrolio in una casa immersa nell’oscurità, Masha disegnò due sagome che si tenevano per mano. Sopra, un sole sorridente. Non era un disegno perfetto, ma rappresentava una famiglia.

A ricreazione, i bambini di città presero in giro Sasha Vetkine:

«Bimba trovata! Ti hanno raccolta in una pattumiera!» deridevano.

Masha si voltò e corse a casa, rifugiandosi nel piccolo ingresso pieno di secchi e stracci.

«Tesoro mio…» sussurrò Maria raggiungendola. «Non ascoltarli: sono solo sciocchezze da bambini.»

«Allora è vero?» domandò Masha con voce spezzata: «non sono veramente vostra figlia?»

Maria mostrò di avere un conflitto interiore profondo:

«La gente ama raccontare qualunque cosa,» disse bruscamente. «Ma per me tu sei mia figlia. MIA figlia, capito?»

Masha indietreggiò, spaventata dalla veemenza della madre. Maria si pentì subito del tono duro, ma le parole erano già state pronunciate.

Per una settimana, freddo e silenzio regnarono tra di loro. Masha faticava ad andare a scuola, Maria lavorava sodo in fattoria fin quasi allo sfinimento e rientrava tardi, e i loro scambi si limitavano a frasi brevi e gelide.

Finché un giorno Ivan, abituato a starsene in disparte durante i litigi, chiamò Masha accanto a sé.

«Siediti,» disse, fissando il paesaggio innevato attraverso la finestra. «Sai cosa ti dirò? Se un legame esiste davvero, nessuna parola può spezzarlo.»

Masha fissò le mani callose ma ancora calde del nonno adottivo, che le avevano intagliato giocattoli, costruito il tetto e asciugato tante lacrime.

«Anche se non siamo di sangue?» sussurrò.

«Ancor più allora,» rispose Ivan annuendo. «Un legame così si sceglie. È più forte del sangue.»

Masha tacque a lungo, poi, piano, si alzò e raggiunse la madre in cucina. Maria stava strofinando i piatti e trasalì quando due braccia si strinsero attorno a lei.

«Cosa fai?» chiese, sorpresa.

«Niente,» rispose Masha a bassa voce. «Volevo solo stare vicino a te.»

Più tardi, dopo aver messo a letto Masha, Maria prese il vecchio scialle dal cassetto e si sedette sul bordo del letto.

«Masha, dormi?» soffocò.

«No,» rispose Masha.

«Vieni qui.»

La bimba si avvicinò, avvolta nella camicia da notte. Maria le porse lo scialle.

«Sei stata trovata dentro questo,» spiegò senza guardarla negli occhi. «Nessuna parola, nessuna traccia. Ho avuto paura… e poi non ho più potuto lasciarti andare.»

Masha carezzò a lungo il tessuto sfilacciato.

«Quello che conta non è chi ti ha messa al mondo, ma chi non ti ha abbandonata,» sussurrò Maria.

Qualche mese dopo, arrivò a casa loro una lettera sigillata dal collegio medico. Masha la tenne tra le mani tremanti.

«Leggi,» la incoraggiò Maria fingendo leggerezza.

Seduta vicino alla finestra, Masha, sedicenne, comprese finalmente il suo destino:

«Sono stata ammessa,» mormorò, con gli occhi lucidi… «Mamma, diventerò infermiera!»

Maria sentì il cuore stringersi: sua figlia stava per volare via per scrivere la propria storia.

«Lo sapevo,» disse stringendo Masha tra le braccia. «Sei brillante.»

Quando la vicina Petrovna tornò con un barattolo di confettura, lasciò sfuggire, quasi senza pensarci:

«Non siete forse parenti? Siete così… diverse.»

Masha prese la parola, tranquilla:

«È vero, sono adottata.»

«Oh, mi scusi, io…» balbettò Petrovna, confusa. «Non volevo…»

«Non c’è nessun segreto,» la rassicurò Masha. «Questa è solo la mia famiglia.»

Più tardi, mentre si preparavano a festeggiare il diciottesimo compleanno di Masha, Maria prese finalmente la decisione che aveva rimandato a lungo: era meglio sentire la verità da lei che scoprirla per caso.

Lavò il vecchio scialle, lo fece asciugare al sole, preparò la torta preferita della figlia e attese con emozione la grande serata.

Sul portico, al calar del sole, le due donne sedevano fianco a fianco, con lo scialle ripiegato sulle ginocchia.

«Domani compi diciotto anni,» disse Maria stringendo la tazza di tè, «sei grande…»

Masha sorrise e carezzò lo scialle.

«Ho sempre saputo di venire da te,» mormorò. «Ci ho messo solo un po’ a capire perché non avevo foto da piccola.»

«Perché non l’hai detto prima?» chiese Maria.

«Avevo paura che mi dicessero: “Ho sbagliato, non mi interessi.”»

Maria deglutì e scosse la testa:

«Non dire mai più una cosa del genere! Non ti ho mai rimpianta.»

Masha versò le lacrime senza far rumore, poi si alzò e strinse Maria in un abbraccio.

«Non sono arrabbiata,» sussurrò. «Sono grata. Di essere stata scelta da te.»

Il giorno dopo, Masha preparò le sue cose per partire al collegio. Maria la osservò in silenzio mentre piegava i libri e prendeva il suo primo stetoscopio.

«Guarda,» disse Masha porgendo una vecchia busta trovata in un comò. «Una parola del nonno?»

Maria annuì. Ivan aveva lasciato quella lettera prima di spegnersi:

«Cara Masha, quando leggerai queste righe, io non ci sarò più. Sappi solo che il sangue non è ciò che scorre nelle vene, ma ciò che vive nei gesti, nelle lacrime e nell’amore. Sei nostra figlia per sempre.»

Quella sera, in piedi alla fermata dell’autobus, Maria stringeva tra le mani lo scialle diventato tesoro.

«Portalo con te,» le propose.

«Tieni tu questo,» rispose Masha, col sorriso nella voce. «Questa è la nostra storia. E io tornerò.»

«Io sono tua madre,» ripeté Masha un’ultima volta, prima di salire sull’autobus, per scelta, per amore; assai più forte di qualunque sangue.

L’autobus si allontanò. Maria rimase sola, con lo scialle e la lettera custoditi gelosamente, il cuore colmo di una nuova pace.

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