Mentre chiede da mangiare a un matrimonio sfarzoso, un bambino si immobilizza quando riconosce la sposa come sua madre perduta da tempo. La decisione dello sposo fa piangere tutti gli invitati…

Il ragazzo si chiamava Iktan. Aveva dieci anni. Iktan non aveva genitori. Ricordava solo che, quando aveva circa due anni, Don Eusebio — un vecchio mendicante che viveva sotto un ponte vicino al Canal de La Viga, a Città del Messico — lo aveva trovato dentro una bacinella di plastica, che galleggiava vicino al bordo di un fossato dopo una tempesta.

Il piccolo non sapeva parlare né camminare. Piangeva soltanto, finché non perse la voce.

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Al polso aveva una sola cosa: un braccialetto rosso intrecciato, vecchio e sfilacciato, e un pezzo di carta umida su cui si riusciva a malapena a leggere: «Per favore, qualcuno di buono si prenda cura di questo bambino. Si chiama Iktan».

Don Eusebio non aveva nulla: né una casa, né soldi, né una famiglia. Aveva solo gambe stanche e un cuore che sapeva ancora amare. Eppure, prese con sé il bambino e lo crebbe con quel poco che riusciva a trovare: pane raffermo, zuppe donate, bottiglie riciclate.

Diceva sempre a Iktan:
—Quando crescerai, e se un giorno troverai tua madre… perdonala. Nessuno abbandona un figlio senza che l’anima gli faccia male.

Iktan crebbe tra bancarelle di strada, mercati all’aperto e notti gelide sotto il ponte. Non seppe mai che volto avesse sua madre. Don Eusebio gli raccontò solo che, quando lo trovò, il foglietto aveva una macchia di rossetto e un capello lungo impigliato nel braccialetto. Pensava che sua madre fosse molto giovane… forse troppo giovane per crescere un bambino.

Un giorno, Don Eusebio si ammalò gravemente ai polmoni e venne portato in un ospedale pubblico. Senza soldi, Iktan dovette uscire a chiedere l’elemosina ancora più di prima, per trovare qualcosa da mangiare.

Quel pomeriggio sentì dire che, in una villa a Polanco, si stava celebrando il matrimonio più grande dell’anno. Con lo stomaco vuoto e la gola secca, decise di tentare la fortuna.

Si fermò timidamente vicino all’ingresso. I tavoli traboccavano di cibo: mole, carnitas, pan dolce, bibite fredde. Un aiutante di cucina lo vide, si impietosì e gli porse un piatto caldo.
—Siediti là e mangia in fretta, ragazzo. Non farti vedere da nessuno.

Iktan lo ringraziò e iniziò a mangiare, guardando dentro. La musica dei mariachi, gli abiti eleganti, i vestiti scintillanti. Pensò in silenzio: *Mia madre vive in un posto così… oppure è povera come me?*

Poi la voce del maestro di cerimonie risuonò:
—Ed ecco qui con voi… la sposa!

La musica cambiò. Tutti gli sguardi si rivolsero alla scalinata decorata di fiori bianchi. E lei apparve. Con un abito bianco impeccabile, un sorriso sereno, i lunghi capelli neri che cadevano in morbide onde. Bellissima, radiosa.

Ma Iktan rimase pietrificato. Non fu la sua bellezza a paralizzarlo… bensì il braccialetto rosso al polso della sposa. Era identico. La stessa lana. Lo stesso colore. Lo stesso nodo consumato.

Iktan si strofinò gli occhi. Si alzò di scatto e avanzò verso il palco, tremando.
—Signora… —disse con voce spezzata— quel braccialetto… lei… lei è mia madre?

La sala piombò in un silenzio assoluto. La musica continuava a suonare, ma nessuno respirava. La sposa si fermò. Guardò il suo polso. Poi guardò il bambino. E vide i suoi occhi. Gli stessi.

Le cedettero le gambe. Si inginocchiò davanti a lui.
—Come ti chiami? —chiese, tremando.
—Iktan… mi chiamo Iktan… —rispose il bambino, piangendo.

Il microfono cadde a terra. Scoppiarono i mormorii:
—È suo figlio?
—Davvero?
—Com’è possibile?

Lo sposo, un uomo elegante e dall’aria tranquilla, si avvicinò.
—Che cosa sta succedendo? —domandò a bassa voce.

La sposa crollò in lacrime.
—Avevo diciotto anni… sono rimasta incinta… ero sola… senza sostegno… non potevo tenerlo… l’ho lasciato… Ma non l’ho mai dimenticato… Ho conservato questo braccialetto per tutti questi anni sperando di ritrovarlo…

Stringendolo a sé, lo abbracciò forte.
—Perdonami, figlio mio! Perdonami!

Iktan la abbracciò a sua volta.
—Don Eusebio mi ha detto di non odiarti… non sono arrabbiato, mamma… volevo solo trovarti…

L’abito bianco si macchiò di lacrime e di polvere. A nessuno importava.

Lo sposo rimase in silenzio. Nessuno sapeva cosa avrebbe fatto. Annullare il matrimonio? Mandare via il bambino? Far finta di niente?

Poi si avvicinò… e non tirò su la sposa. Si accovacciò davanti a Iktan, portandosi alla sua altezza.
—Vorresti restare… e mangiare con noi? —gli chiese con dolcezza.

Iktan scosse la testa.
—Io… io voglio solo la mia mamma.

L’uomo sorrise. E abbracciò entrambi.
—Allora… se vuoi… da oggi avrai una madre… e anche un padre.

La sposa lo guardò incredula, piangendo.
—Non sei arrabbiato con me? Ti ho nascosto il mio passato…

—Io non ho sposato il tuo passato —sussurrò lui— ho sposato la donna che amo. E ti amo ancora di più sapendo quanto hai sofferto.

Quel matrimonio smise di essere lussuoso. Smise di essere elegante. Divenne qualcosa di sacro. Gli invitati iniziarono ad applaudire tra le lacrime. Non stavano celebrando una cerimonia. Stavano celebrando un incontro.

Iktan prese la mano di sua madre. E la mano dell’uomo che lo aveva appena chiamato “figlio”. Non c’erano più ricchi o poveri. Nessuna differenza. Solo un sussurro nel cuore del bambino:
«Don Eusebio… lo vedi? Ho trovato la mia mamma…»

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