translate text into italianSono già trascorsi tre anni da quel giorno in cui nella vita di Irina si è abbattuto non solo il dolore, ma la perdita di tutto ciò che la rendeva viva. In un istante, come se un cavo si fosse spezzato sopra un abisso, le hanno sottratto le due persone a lei più care: il marito Oleg e il piccolo figlio Timur.
A prima vista, nulla faceva presagire la catastrofe. La mattina era cominciata come sempre: fresca, silenziosa, con una leggera foschia appoggiata alle finestre. Oleg, come ogni fine settimana, stava per andare a pescare. Non era solo un passatempo, ma un rito: un modo per fuggire dal frastuono, schiarirsi le idee, sedersi in silenzio con la canna e riflettere. A volte scherzava: «Sul Golfo Calmo mi sento in confessionale — senza peccati e con la coscienza tranquilla».
Talvolta tornava con un pescato ricco e, con fare orgoglioso, spargeva i pesci sul tavolo come trofei. Irina sospirava scuotendo gli occhi al cielo e cominciava a preparare i sacchetti per il freezer. Sapeva per chi si era sposata: un uomo la cui anima era intrisa di acque. Ma non poteva negare che ammirasse lo sguardo del marito quando parlava del suo luogo del cuore: il Golfo Calmo, dove l’acqua rifletteva il cielo come uno specchio e l’aria era intrisa di profumo di pini e di canti d’uccelli.
Lei stessa l’aveva accompagnato qualche volta, ma i morsi delle zanzare le toglievano ogni piacere. Eppure ammetteva:
— Il posto è bellissimo… ma ne basta un paio d’ore. Dopo è un inferno.
Timur, invece, adorava quel luogo. Fin da quando aveva cinque anni, chiedeva di andare a pescare come si chiederebbe un parco divertimenti. Correva sulla riva con la sua cannetta giocattolo, immaginandosi un grande pescatore. La sua risata si rifrangeva sull’acqua e i suoi occhi scintillavano come se in essi brillasse tutta l’estate.
Quel giorno iniziò come tanti altri. Oleg aveva provato a dissuadere il figlio: troppo presto, troppo freddo, e le zanzare… Ma Timur si era offeso, lo sguardo colmo di delusione. Irina lo guardò e il cuore le si strinse. Suo figlio era il suo ritratto vivente: gli stessi occhi azzurri, le stesse ciglia lunghe che suscitarono mille esclamazioni di ammirazione: «Sembra una bambina!» Dicono che chi somiglia alla madre sia fortunato. Come poteva negargli quel viaggio?
— Va bene — disse lei con voce decisa — ma non ti allontanare di un passo da papà. E soprattutto, non entrare in acqua.
— Promesso! — gridò Timur di gioia, come se avesse vinto il premio più grande.
— Cresce un pescatore — sorrise Oleg, baciando Irina sulla tempia.
All’alba, quando intorno regnava ancora l’oscurità, Irina li accompagnò alla macchina. Augurò loro buona pesca, aggiustò il colletto della giacca al figlio e rimase in piedi sul vialetto finché l’auto non scomparve alla prima curva. Sbadigliando, tornò in casa e si rimise a letto: erano appena le sei di mattina.
Il telefono squillò all’improvviso, come un tuono a ciel sereno. Mezzo addormentata, raccolse la cornetta e vide sul display il nome di Oleg.
— Strano… già dovrebbe essere al golfo — pensò fra sé.
Ma la voce che rispose non era la sua. Era un uomo, una voce sconosciuta. All’inizio Irina credette di sognare, poi subentrò il caos: taxi, corsa disperata fino alla camera mortuaria, lacrime, preghiere, urla: sperava fosse un errore…
Ma non ci fu miracolo. Nessun errore. Oleg e Timur morirono mentre si dirigevano verso il loro posto preferito. All’uscita da Berezovsk un camion sbucò contromano e li travolse. Il conducente era ubriaco. Non ebbero scampo. La vita si spense in un istante.
I giorni successivi furono come immersi nella nebbia. Funerali, volti affranti di parenti, amici che si fecero carico di tutto. La sostennero quando lei non aveva più la forza di comprendere perché continuare a vivere. Finché non arrivò un’alba in cui tutti se ne andarono, lasciandola da sola. Del tutto sola, nell’appartamento del quartiere meridionale, dove ogni oggetto ricordava chi non c’era più. Ogni fotografìa, ogni angolo le sussurrava: «Sei stata tu a lasciarli andare».
I sensi di colpa la tormentavano. Si rimproverava di aver permesso al bambino di partire. Ce l’aveva con il marito per non aver insistito, per non aver cambiato rotta. Voleva urlare, piangere, maledire, ma in definitiva si limitava a ululare: come una madre che ha perso i suoi cuccioli, come una donna che non ha più nulla.
L’unico appiglio che la teneva a galla era il lavoro. Vi si aggrappò come un naufrago a un pilone. Al mattino l’ufficio, la sera il ritorno a casa, se ne aveva la forza. Spesso vagava per la città: guardava le vetrine, si sedeva sulle panchine, fissava il cielo finché il sonno non la cogliesse. Solo allora faceva ritorno all’appartamento vicino alla stazione «Centrale», dove le pareti gelide e il silenzio eterno non la accoglievano né riscaldavano: semplicemente esistevano.
Ogni notte era una nuova battaglia. Ogni giorno la ripetizione dello stesso incubo. Si sedeva sul bordo del letto, affondava il viso nel cuscino e piangeva, senza emettere suono, con un groppo amaro in gola. Quelle notti sembravano infinite.
Chissà come sarebbe finita se non fosse intervenuta Lena, l’amica di sempre che non le cantava le solite banalità del tipo «andrà meglio». Un giorno le disse con franchezza:
— Ira, basta. Non puoi vivere in questa tomba. Vendi l’appartamento. Trasferisciti altrove. Magari ti sentirai più leggera.
— Davvero? — chiese Irina, attonita.
— Sì. Voglio che tu riprenda a respirare. E per le cose… — Lena esitò — i vestiti di Timur e Oleg… forse è meglio darli via. Almeno toglili di mezzo.
Irina si infuriò:
— Vuoi che butti i vestiti di mio figlio? I suoi giochi? I suoi disegni?! Capisci cosa chiedi?
Lena rifletté.
— Va bene. Allora portiamoli in campagna. Lì staranno bene. Ma lontano da te. È un compromesso.
Irina accettò, a fatica, tra le lacrime e la ribellione interiore. E in effetti si sentì un po’ meglio: solo un po’. Il dolore non scomparve, diventò lo sfondo costante di una vita sospesa.
Tre anni erano ormai passati. Irina non rideva, non viveva: semplicemente esisteva, come un robot. Si alzava, si lavava, andava al lavoro, tornava, mangiava meccanicamente e fissava il muro. Le sue emozioni erano morte con il marito e il figlio. Era rimasta intrappolata in quel giorno catastrofico, senza fine, muto, spietato.
La nuova casa era più vicina all’ufficio — solo dieci minuti a piedi — ma a lei non dava sollievo. Non si accorgeva nemmeno del cambiamento. In compenso, il viaggio al cimitero era diventato infinitamente più lungo. Lì si recava quasi ogni settimana, come fosse un rituale sacro.
L’amica sospirava, i genitori imploravano:
— Ira, ti stai rovinando.
— Lascia andare il dolore — ripeteva Lena.
Ma Irina non ascoltava. Ogni domenica comprava nuovi fiori, orsacchiotti, caramelle. Li acquistava con un solo pensiero: «Devo dimostrare che sono stata lì». Prima la metro, poi il bus — un percorso che somigliava a una prova di forza che doveva superare.
Un’altra di quelle mattine, Irina scese all’ultima fermata con lentezza. Il custode del cimitero ormai la riconosceva e le fece un breve cenno:
— Buongiorno.
— Buon giorno — rispose lei, stringendo al petto un grande coniglio di peluche.
Si fermò un attimo davanti alla tomba del marito, quasi per scusarsi di trascorrervi troppo poco tempo, poi si avvicinò alla lapide del bambino, sormontata da un angelo di pietra bianca. Si inginocchiò, sistemò i fiori, posò il nuovo pupazzo accanto agli altri. Quindi si lasciò cadere a terra, seduta, abbracciando le ginocchia.
— Tesoro mio… — mormorò, sfiorando la terra fredda — senza di voi tutto è senza senso… Ho così paura e mi sento sola…
Le lacrime le rigavano il volto senza far rumore. Sollevò lo sguardo verso il cielo come a cercare Dio:
— Signore… perché mi hai abbandonata? Perché?.. Per cosa?.. Porta
mi via anche me… non ce la faccio più…
Il cuore le scoppiava di dolore, il petto le stringeva un nodo insopportabile. Sopra di lei un’allodola volteggiava, il suo canto era così straziante da sembrare un lamento condiviso.
Non sapeva quanto tempo fosse passato, quando un tenue pianto di bambino la scosse. Proveniva da un cespuglio di lillà poco distante. Un vocino sottile e tremolante.
Irina si avvicinò con cautela. Dietro i fiori, seduta per terra, c’era una bambina di circa sette anni, biondina, magra, tutta coperta di polvere. Con le mani a coprirsi il volto, singhiozzava:
— Mamma… vieni a prendermi… non voglio più stare con papà… mi fa male…
Il cuore di Irina si strinse, ma con delicatezza le sfiorò la spalla. La bambina trasalì, sollevò gli occhi e la fissò. Quegli stessi occhi azzurri profondi, contornati da ciglia nere, identici a quelli di Timur. Fu un colpo al cuore.
— Ciao… — disse Irina con voce dolce, cercando di sorridere — Sei sola?
— Sì… Sono venuta sulla tomba di mia mamma — sussurrò la bambina.
— Come ti chiami, piccolina?
— Mila… — rispose timidamente.
— E come hai fatto a venire qui da sola?
— Abito vicino… Solo che papà adesso è cambiato. Dopo la mamma ha cominciato a bere. Non mi picchia… ma ho paura.
Il dolore di quella piccola disperata fece leva su di lei. Irina si alzò e le propose:
— Vieni con me. Non puoi stare qui da sola tra le tombe.
Mila posò la sua manina in quella di Irina senza opporre resistenza. All’uscita il custode la salutò:
— Eccoti di nuovo, Mila? Ti abbiamo già riportata a casa diverse volte, ma rientri sempre.
— Mi mancava la mamma… — balbettò la bambina.
— Vedremo — disse Irina, tirandola per mano.
Per strada Mila parlò piano, ma con decisione:
— Per favore, non chiamate i servizi sociali. Non voglio andare in orfanotrofio. Papà non è cattivo, è solo triste.
Irina l’abbracciò:
— Non ti preoccupare. Non ti porterò da nessuna parte contro la tua volontà. Ora andiamo in un bar a mangiare, poi decideremo cosa fare. Hai fame?
Mila annuì, deglutendo per la fame.
— Moltissimo…
Entrarono in un caffè accogliente chiamato “Veranda”, luminoso, con profumo di cannella e un leggero sottofondo di jazz. Irina ordinò per la bambina: zuppa, pasta con polpetta, succo di frutta e, più tardi, un gelato con panna montata.
Osservò Mila mangiare con cura, posare il bicchiere, raccogliere ogni briciola di cibo. Quando arrivò il dolce, la bambina disse:
— Ho sei anni. L’anno prossimo andrò a scuola.
— Davvero? E in quale? — chiese Irina cercando di mantenere un tono leggero.
— Non lo so… Papà mi ha promesso che me lo dirà. Una volta lavorava in una grande azienda, ma dopo la mamma è cambiato. Rimane a casa, fuma, non fa nulla.
Irina ascoltava senza interrompere.
— Abiti a cinque fermate da qui, vero? A volte cammini a piedi perché da sola non ti fanno salire sul bus e minacciano di chiamare la polizia. Eppure tu scappi…
Il cuore di Irina si chiuse per un attimo. Quella bambina era stata vista da tutti, eppure nessuno le aveva teso la mano. Ora toccava a lei.
— Andiamo a casa tua — disse infine Irina.
Mila annuì, ma restava in tensione. Sussurrò:
— Solo non chiamate la polizia.
— Lo prometto — rispose Irina.
Presero un minibus e in pochi minuti arrivarono davanti a un vecchio casolare a due piani con la targa storta e un cancello in ferro battuto. Un tempo il giardino era curato, ora l’erba spuntava tra le lastre, la pergola era avvolta dal rampicante.
— Una volta avevamo una domestica e un giardiniere — spiegò Mila quasi a giustificarsi — ma papà li ha cacciati. Dice che non ha forza.
Irina sospirò. Tutto parlava di un passato felice, ora sepolto. Entrarono. L’aria interna era viziata: un misto di alito di alcol, muffa e piatti sporchi mai lavati. In salotto, disteso sul divano, c’era un uomo: barba incolta, guance scavate, una bottiglia vuota in mano. Non dormiva, fissava il soffitto come cercasse risposte ai suoi tormenti.
— Papà? — chiamò Mila spingendolo appena alla spalla.
L’uomo borbottò qualcosa, senza aprire gli occhi né muoversi. Irina esitò sulla soglia, indecisa. Ma quando la bambina scoppiò in singhiozzi, capì che non poteva lasciarla lì.
— Prepara le tue cose. Vieni con me — ordinò con fermezza.
— E mio papà? — chiese spaventata Mila, sollevando lo sguardo. Quegli stessi occhi azzurri…
— Si sveglierà e verrà a riprenderti — promise Irina, incerta se credere più alle sue parole o alla speranza.
Prese un biglietto e vi appuntò il suo indirizzo e il numero di telefono, lasciandolo accanto alla bottiglia. Un segno, un punto di riferimento.
Per strada Mila sembrava rinata. Camminavano in silenzio mano nella mano finché la bambina, con un sorriso, disse che con quella «zia» si sentiva sicura e protetta.
Arrivati a casa, Irina avvertì il desiderio di cucinare. Tirò fuori gli ingredienti, stese la pasta per la pizza, infornò il piatto, poi preparò il borsch come piaceva a Timur. Più tardi andarono insieme al negozio e riempirono il carrello di merendine e bibite: «Ogni tanto si può fare», scherzò Irina, e Mila rise: «E non serve neanche lavarsi i denti!»
Risero, per la prima volta dopo tanto tempo. Poi bagno caldo, pigiama pulito, coperta soffice e la fiaba della mosca Tzokotukha a corredo della nanna. Irina lesse ad alta voce mentre Mila si accucciava al suo fianco.
— Avevi un figlio? — chiese improvvisamente Mila.
— Sì. Si chiamava Timur. Ora è in cielo.
— Anche la mia mamma è là… — sospirò la bambina — Saranno felici insieme?
— Penso di sì. Ma noi restiamo qui. È ora di dormire, cucciola.
— Buonanotte… — rispose assonnata Mila, rannicchiandosi.
Irina la osservò finché non si addormentò, poi spense la luce e si sdraiò accanto a lei. Sognò Timur e Oleg, felici e spensierati al parco, mentre mangiavano gelato e ridevano.
La svegliò il suono del telefono. Il sogno svanì, la realtà tornò, cruda e violenta. Una voce maschile, carica di rabbia e terrore, le rimbombò nell’orecchio:
— Chi è? Mia figlia dove l’avete portata?!
— Chi parla? — chiese Irina con calma apparente.
— Sergio! Sono io, il padre! Dove è mia figlia?!
— Sta dormendo. Piuttosto: dov’era tuo pensiero quando la bambina vagava sola in un cimitero?
— Io… — balbettò lui — Per favore, non chiamare la polizia. Arrivo subito.
— Va bene, ti aspetto — chiuse Irina ricollocare del telefono.
Un moto inspiegabile la spinse in cucina a prendere una padella. Decise che avrebbero fatto le frittelle: quelle che amava Timur, ma che forse sarebbero piaciute anche a Mila.
Mezz’ora dopo, la casa profumava di infanzia: dolce, familiare. I primi raggi di sole filtravano dalla finestra e Irina avvertì un tepore dentro al cuore, forse il primo dopo tre anni.
Il citofono interruppe quella calma. Aprì: in piedi c’era un uomo alto, lo sguardo chiaro, un’ombra di stanchezza sul volto, ma non più sconfitto. Era Sergio.
— Buongiorno. Sono Sergio, il padre di Mila.
Irina lo fece entrare in silenzio.
Si disposero attorno al tavolo della cucina, intriso di odore di miele e frittelle. Irina offrì una tazza di tè e cominciò a raccontare senza accusare, con estrema onestà: come aveva trovato la bambina al cimitero, come era spaventata, come temeva l’orfanotrofio.
Sergio ascoltava a testa china, ogni parola cadeva come gocce fredde. Poi si fece coraggio:
— Prima avevamo tutto. Mia moglie Katja era meravigliosa: gentile, intelligente, bella. E Mila era la luce della nostra vita. Lavoravo in una grande azienda, guadagnavo bene. Poi un giorno lei ha perso conoscenza. Al terzo stadio del cancro. Senza sintomi, tutto è stato troppo rapido. E quando abbiamo capito… era già troppo tardi.
Il suo voce si ruppe:
— Ho iniziato a bere per non sentire più nulla. Pensavo che Mila fosse al sicuro, e invece…
— Vagava tra le tombe, Sergio — lo interruppe Irina con voce più dura di quanto volesse — e nessuno si è accorto di lei: né tu né i vicini. Un bambino di sei anni!
— Non lo sapevo — mormorò lui — Quando non l’ho trovata casa, ho pensato di morire.
Silenzio.
Approfittando di quel momento, la porta si socchiuse e Mila, spettinata, in maglietta grande, apparve con un sorriso assonnato.
— Papà? — chiese sorpresa.
— Ehi, tesoro — rispose lui aprendole le braccia.
Mila si gettò tra le sue spalle, singhiozzando:
— Ti voglio tanto bene… Ma ho paura quando sei così…
— Perdona papà — sussurrò lui con commozione — Prometto che non sarà più così.
Irina osservava la scena, il cuore sbatteva forte. Le ombre del passato cedevano il passo a un timido calore.
— Prepariamo la colazione — annunciò lei. — Il tè è ancora caldo.
— Non voglio disturbare… — tentò Sergio.
— Ho preso un permesso dal lavoro — rispose Irina — Non ci sono fretta.
— Posso restare? — chiese Mila.
— Certo — rispose Irina con un sorriso leggero.
— Grazie — disse Sergio, imbarazzato e riconoscente.
— Sedetevi — invitò Irina — Le frittelle sono pronte!
— Evviva! — esclamò Mila.
— E io le adoro anch’io — aggiunse Sergio come un bambino.
Sedettero attorno al tavolo, tra risate e tè caldo. Fu una colazione semplice, ma carica di calore umano. Fuori non c’era né autunno né dolore, solo un’alba normale che faceva venir voglia di vivere.
Settimane e mesi passarono. Irina e Sergio cominciarono a vedersi più spesso. Mila trascorreva i fine settimana da lei e, giorno dopo giorno, tornava a splendere. Sergio smise di bere, riprese il lavoro e riprese a essere padre.
Irina ridusse le visite al cimitero. Non perché avesse dimenticato, ma perché aveva imparato a vivere di nuovo: per Mila, per sé stessa e — perché no — anche per qualcosa di nuovo.
E là, oltre le nuvole, o nei ricordi di chi non c’è più, continuavano a brillare gli sguardi di Oleg e Timur: persone che non si possono riportare indietro, ma che si possono custodire con amore, imparando a lasciare andare il dolore per dare spazio al futuro.
Perché a volte amare significa non aggrapparsi al passato, ma dare una possibilità al domani.