Lena amava il mattino. Si alzava presto, preparava un caffè forte e apriva il portatile per iniziare a lavorare al prossimo articolo. In quei momenti si sentiva sicura di sé, padrona di ogni minimo dettaglio della sua vita. Ma, giorno dopo giorno, quella sensazione di controllo cominciava a sfuggirle.
Artem era cambiato da tempo. O forse era lei a non averlo mai notato prima? Il loro matrimonio non era felice, ma neanche infelice poteva definirsi. Vivevano fianco a fianco, come due vicini che trovano più comodo restare insieme piuttosto che pensare al divorzio. Lui tornava tardi dal lavoro e a volte non passava la notte in casa, giustificandosi con trasferte. Lei non faceva domande – non perché si fidasse, ma perché riteneva inutile insistere.
Ciò che però la turbava di più non era il comportamento del marito, ma quello della sua famiglia. Alla Gennadievna era sempre stata contraria al loro matrimonio.
«Artem, tu sei un uomo: ti serve una moglie che crei una casa accogliente, non una che corra sempre col portatile», diceva con un sorriso appena accennato ogni volta che veniva a trovarli.
Lena faceva finta di non sentire. Dopotutto, Alla non viveva con loro. Ma la sua influenza su Artem era enorme, e Lena lo sapeva bene.
Una sera…
Artem era uscito a fare la spesa, e Lena decise di concedersi un bagno caldo. Riempì la vasca di schiuma, mise della musica rilassante e si lasciò avvolgere dal calore dell’acqua.
Passati una ventina di minuti, sentì la porta d’ingresso sbattere. Pensò semplicemente che fosse tornato lui. Ma pochi secondi dopo, due voci giunsero chiaramente dalla porta del bagno.
«Hai finalmente preso una decisione?» chiese la voce di Alla Gennadievna.
«Mamma, non so ancora cosa sia meglio fare…» rispose Artem con tono incerto.
Lena si immobilizzò. Non aveva mai spiato le conversazioni del marito, ma in quel momento qualcosa dentro di lei la costrinse a restare in silenzio.
«Cosa c’è da pensare?» insisté la suocera in tono impaziente. «Fai in modo che se ne vada da sola. Non serve litigare o spiegarsi: dev’essere lei a decidere che non ha più scelta.»
Lena sentì il cuore battere forte contro il petto.
«Mamma, capisci, non è così semplice.»
«È facile, basta fare un passo alla volta. Oggi questo, domani quell’altro. L’importante è portarla al punto che sia lei a fare le valigie e andare via. Vedrai che, quando inizierà ad avere problemi, quando comincerà ad avere paura per la sua stessa vita, tu apparirai agli occhi di tutti come il povero marito incompreso.»
Lena non sapeva cosa fare. Le girò la testa.
«Non è mica una stupida, mamma», disse Artem a bassa voce.
«Non è stupida, ma nemmeno onnipotente», rise la suocera.
Lena si allontanò di scatto dalla porta, sentendo un brivido di freddo correre lungo la schiena. Capì che volevano spezzarla, farla impazzire.
Da quella sera nulla fu più lo stesso.
All’inizio erano piccole cose: l’allarme che non suonava, nonostante fosse impostato; accorgimenti che sembravano innocui, ma che la facevano dubitare di sé. Un giorno trovò nella sua trousse un blister di pillole che non aveva mai comprato.
«Artem, mi hai messo qualcosa nella borsa?» chiese mostrando le compresse.
«Cosa? Certo che no», rispose lui senza neppure distogliere lo sguardo dal telefono.
Poi, un pomeriggio, tornò a casa e sentì odore di gas. Corse alla cucina: i fornelli erano spenti, eppure il puzzo era fortissimo.
«Hai lasciato di nuovo il gas aperto?» la rimproverò Artem entrando.
Lena rimase pietrificata.
«Non sono stata io.»
La fissò con aria valutativa, come se stesse pesando ogni parola.
«Lena, devi riposare. Ultimamente non sei più te stessa.»
Voleva spiegargli che qualcosa di strano stava accadendo in quella casa, che oggetti sparivano e ricomparivano, che aveva udito la conversazione con sua madre. Ma guardando Artem comprese che aspettava solo il momento in cui lei avrebbe ceduto.
Volevano farle dubitare di sé.
I documenti un giorno sparivano e poi ricomparivano in un luogo diverso. Contatti importanti sul telefono sparivano, in particolare quelli dell’amica con cui condivideva pensieri e confidenze. Le lampadine di bagno e cucina si fulminavano una dopo l’altra, nonostante fossero nuove.
Ma il colpo più forte fu il giorno in cui aprì il computer e trovò nel browser pagine con ricerche del tipo “sintomi di disturbo mentale”, “allucinazioni da stress”, “come convincere qualcuno a ricoverarsi in clinica psichiatrica”.
Lena chiuse di scatto lo schermo, le mani sudate e gelide.
«Non sono io, non sono io», sussurrò.
In quel momento entrò Artem.
«Lena, di nuovo al computer? Forse ti serve una pausa», disse con voce suadente, ma nei suoi occhi brillava qualcosa di gelido.
Lei rimase muta. Doveva trovare un modo per uscire da quell’incubo.
Il giorno dopo, Artem le disse che sarebbe rientrato tardi. Lena lo vide come un’opportunità per rovistare tra le sue cose: non sapeva bene cosa cercasse – prove, conferme, o semplicemente rassicurazioni sul fatto che non stava impazzendo.
Quando aprì il cassetto di Artem, si bloccò. Trovò pacchetti di sue fotografie: non scatti normali, ma immagini inquietanti. C’era una foto di lei addormentata, con Artem in piedi accanto al letto che fissava dritto in camera; un’altra la ritraeva riflessa in uno specchio con un’espressione distorta e angosciata.
Lena sfogliò le foto con mani tremanti. Sembrava che le avesse scattate lei stessa, ma era certa di non averne memoria.
«Cosa ci fai qui?» sbottò Artem dall’anta della porta.
Lei si voltò di scatto. Lui stava lì, impassibile.
«Mi spiavi… tu…» la voce di Lena tremava.
«Cosa stai inventando?» rispose lui, inclinando leggermente la testa come a studiarne la reazione. «Davvero pensi che ti spii?»
Lena indietreggiò.
«Voglio solo che tu capisca: sei stressata, hai bisogno di aiuto. Siamo adulti, no? Facciamo appello alla logica.»
Lei scosse la testa, capendo di trovarsi davanti a un muro di fredde bugie.
Senza pensarci, corse fuori dall’appartamento e precipitosamente si trovò in strada, il vento gelido le tirava in faccia.
Non sapeva dove andare, ma una cosa era certa: non l’avrebbero spezzata.
Lena non tornò a casa. Si rifugiò da una collega, dove passò diverse notti alla ricerca di un modo per incastrare Artem.
Alla fine rintracciò le sue conversazioni con la madre. C’erano messaggi intimi, quasi un diario:
«Ha iniziato a innervosirsi. Ieri ha detto di non ricordare come ha spento la luce.»
«Le ho parlato delle pillole. Penso che presto crederà di essere solo sbadata.»
«Presto la convinceremo ad andare in clinica – prima con delicatezza, poi con pressione.»
Lena capì che volevano dichiararla incapace di intendere e di volere.
Raccolse le prove, registrò una conversazione con un’ex amica di Artem che lasciò intendere: «Lui ha sempre saputo come liberarsi delle persone indesiderate».
Quando tornò a casa con le prove, non era più la donna smarrita che volevano spingere al limite.
«Sei tornata?» disse Artem fingendo sollievo.
«Sì. E sto andando via.»
«Via dove?» chiese lui aggrottando la fronte.
«Ho depositato la richiesta di divorzio. E a proposito, presto riceverai una verifica ufficiale.»
Artem rimase in silenzio, mentre Lena si allontanava senza voltarsi. Sul suo volto non c’era rabbia né paura, soltanto un lieve senso di delusione.
«Ecco, sembra che questo piano non abbia funzionato», mormorò.
Lena varcò la soglia e si allontanò. Eppure, a volte, ancora si sveglia nel cuore della notte, sentendo uno sguardo fisso su di sé.